Storia della mia famiglia è su Netflix, ma poteva tranquillamente andare in onda su Rai 1. E non, non lo diciamo in senso dispregiativo. Dei vari titoli della piattaforma approvati da Tinny Andreatta, ex boss di Rai Fiction da qualche anno al lavoro per lo sviluppo delle serie originali Netflix Italia, Storia della mia famiglia è quello che più si avvicina al suo incarico precedente: una storia che vuole parlare a tutti, con il linguaggio della sincerità, delle emozioni e dei sorrisi. Più generalista di così, cosa c’è?
La recensione di Storia della mia famiglia
Una famiglia oltre i legami di sangue
Il titolo lo chiarisce subito: Storia della mia famiglia è la storia, appunto, di una famiglia. Quella di Fausto (Eduardo Scarpetta), malato terminale che non si piega alle logiche del dolore che la malattia gli impone e decide di spremere la vita fino all’ultima goccia, per se stesso e per le persone che lo circondano.
La famiglia del titolo della serie non è intesa però come la famiglia convenzionale che possiamo immaginare: ci sono infatti legami di sangue, come la madre Lucia (Vanessa Scalera) e il fratello Valerio (Massimiliano Caiazzo) e i migliori amici, come Maria (Cristiana Dell’Anna) e Demetrio (Antonio Gargiulo). Il senso più intimo di questo racconto, sta proprio in questa composizione: la famiglia è sì quella biologica, ma anche quella che ti scegli.
Una serie che riesce a parlare a tutti
La bravura di Filippo Gravino, creatore della serie, è stata nel pensare una storia che parlasse a tutti senza voler avere quel sapore di già visto o di prevedibile. Ci sono le esperienze di vita di chi ha scritto questa serie, quelle di chi l’ha diretta (Claudio Cupellini), e poi ci sono le sensazioni di noi, spettatori.
La visione di Storia della mia famiglia diventa un’esperienza di gruppo, una di quelle serie che generano commenti, opinioni, dividono serenamente il pubblico tra fan di una coppia o di quell’altra. Netflix Italia ha, insomma, creato una serie al taglio moderno, ma che riesce a unire come le grandi serie delle tv nazionali.
Tra i richiami a Cotroneo e il senso di tribù
Non è un caso, forse, che alla nostra visione Storia della mia famiglia richiama molto quei sapori di un autore e regista come Ivan Cotroneo, che proprio sulla Rai ha portato in scena altre “storie di famiglie” diventate cult. Gravino e Cupellini, su quella scia, ci ricordano la potenza evocativa di un buon racconto familiare, qualunque esso sia.
Anche di quelle famiglie che, come scritto da Cupellini, sono soprattutto “tribù”: gruppi accomunati da parentele o da stretti legami d’amicizia, che insieme formano famiglie pronte a litigare, sostenersi e crescere. Netflix fa un passo avanti proprio nell’immaginare la famiglia italiana un po’ meno costretta dai legami di sangue. C’è chi la chiama famiglia allargata: e se -ci dice questa serie- la famiglia fosse sempre stata così?
Peccato per il finale…
A fronte di un racconto che conquista, diverte, emoziona e ha tutte le carte in regola per essere una di quelle serie da consigliare con il passaparola, Storia della mia famiglia lascia decisamente l’amaro in bocca nel finale. Cosa sia passato nella mente degli autori non possiamo saperlo, ma possiamo fare due ipotesi: o Netflix ha imposto loro un non-finale per valutare una possibile seconda stagione, o c’è stata l’intenzione di scrivere una conclusione che rispecchiasse le storie delle tante famiglie che avrebbero visto la serie, ovvero storie che per loro natura non sono destinate a finire, ma a perdersi tra le trame della vita per poi, magari, ritrovarsi. Eppure, da una serie tv ci saremmo aspettati un finale un po’ più preciso e meno sospeso.