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Il Commissario Montalbano sorprende col ‘metodo Zingaretti’

Il metodo Catalanotti mette da parte la tv e attinge direttamente al teatro e al cinema: Il Commissario Montalbano sorprende ancora.

pubblicato 9 Marzo 2021 aggiornato 9 Marzo 2021 18:32

Il metodo Catalanotti regala una delle migliori trasposizioni televisive dei romanzi de Il Commissario Montalbano degli ultimi anni ridando alla serie una profondità di racconto, una cura nei personaggi, una raffinatezza della confezione che non si vedeva da tempo. Luca Zingaretti sceglie una messa in scena squisitamente teatrale per il più ‘teatrale’ dei romanzi di Camilleri e nello stesso tempo punta su una regia dal sapore decisamente cinematografico per esaltare le caratteristiche degli interpreti e i chiaroscuri dei personaggi. I piani sequenza restituiscono la dimensione teatrale della scrittura di Camilleri e sottolineano la bravura degli interpreti – tutti, dai protagonisti ai caratteristi – mentre le soggettive ci portano in questo Montalbano sconosciuto e sorprendente. Inquadrature rinnovate, movimenti diversi di macchina (penso al carrello nella scena finale in teatro), una fotografia molto più decisa, una generale sensazione di cura nella realizzazione, che si era un po’ persa sul piano della confezione, che va a braccetto con una scrittura che lascia molto più spazio al dialogo e all’interazione di personaggi, che qui ritroviamo in tutte le loro sfumature.

La parola, però, questa volta non si sostituisce del tutto all’azione, ma l’accompagna, la precede, la circonda, l’arricchisce: si ricorre al flashback sia per raccontare ‘il metodo Catalanotti’ (e la scena sulla spiaggia ha un che di felliniano), sia per mostrare quel che altrimenti sarebbe stato semplicemente riportato dal dialogo e che invece diventa occasione per rivedere all’opera “quel cornutazzo e fimminaro” di Mimì Augello ad esempio, tornato, come Fazio, a essere un co-protagonista e non soltanto ‘un appunto a margine’. Dicevamo che c’è tanta costruzione teatrale anche nella regia, che rinuncia al canonico campo e controcampo per offrire invece un’interazione tra attori/personaggi che era mancata negli ultimi anni e che ora si gusta con calma.

Tanta ricchezza sul piano dell’interpretazione: Luca Zingaretti dà a questo Montalbano una serie di sfumature che probabilmente non ha mai avuto e lo mostra in tutta la sua fragilità, la sua resa, la sua difficoltà, la sua frattura. Smessi gli occhiali a goccia e la camminata perentoria verso la verità, qui Salvo si muove per Vigàta portando addosso tutto il peso di una condizione che lo affatica (si veda l’arrivo nel teatro per il finale) e che lo schiaccia. Amare lo affatica, fisicamente e psicologicamente. La sofferenza e la dualità del personaggio in questo particolare romanzo è resa da uno Zingaretti in stato di grazia: anche il più impercettibile movimento è controllato ed è portatore di significato, valorizzato e sottolineato. Niente è buttato via, tutto è soppesato al millimetro: non che altrove non lo fosse, ma qui è essenziale e necessario alla demolizione e (ri)costruzione di un personaggio come il commissario Montalbano che finora ha avuto una linea di comportamento e di pensiero granitica e riconoscibile. Tutto cambia e così ogni minimo movimento è segno di un cambiamento in atto.

La telefonata con Livia, ad esempio, è un gioiello di equilibrio, misura e nello stesso tempo di esplosività: si riesce a percepire ogni singolo pensiero di Salvo, ogni singola pulsazione del suo cuore, ogni minimo tentativo di isolarsi dalla realtà; lo stesso vale per il dialogo con Antonia sul terrazzo di Marinella, nel quale riesce a rendere, senza fare un solo fiato, l’immagine di un uomo che cade a pezzi, come una lastra di cristallo colpita nel suo punto debole. Peccato per le partner, che non riescono a stare al passo: la sensazione è che la Scarano butti via il dialogo centrale del suo personaggio senza riuscire a rendere quella certo complessa combinazione di nonchalance e cinismo che invece sembra ridursi quasi in un capriccio. Così come nella scena finale, che si regge essenzialmente sullo sguardo e sui respiri di Zingaretti, tra citazioni desichiane e cliffhanger lontani dalla canonica consolazione di un finale montalbaniano.

In questo ‘metodo Catalanotti’ prende forma il ‘metodo Zingaretti’: un metodo che riesce a trovare una piena sintonia con il testo, trasponendone le intenzioni prima ancora dei contenuti narrativi. Un metodo che tiene insieme tutte le arti, da quelle scenografico/sceniche col ritorno negli interni delle belle case Vigatesi (anche se quell’opulenza delle origini non c’è più), a quella cinematografica con inquadrature suggestive e movimenti di macchina che nulla hanno a che fare con la ‘ragioneria televisiva’, passando per una fotografia che sa di pittura, per una partitura musicale costruita dalla combinazione di lunghi dialoghi e profondi silenzi, per un’arte attoriale che offre un ventaglio di interpretazioni a tutto tondo (con una Marina Rocco trascinante e la coppia Bocci-Mazzotta che torna a essere finalmente complice e protagonista). Il tutto senza fretta, come a voler assaporare ogni piccolo dettaglio di questa ‘messa in scena’ ispirata dal metodo Catalanotti. E vale la pena assaporarla, perché non si sa quanto si dovrà aspettare per gli ultimi due capitoli della collection de Il commissario Montalbano, se mai dovessero essere realizzati. Ma questa è un’altra storia.

Nel frattempo chapeau a Luca Zingaretti e a tutta la squadra: ‘Il metodo Catalanotti’ restituisce un Montalbano sorprendente non solo per come è uscito dalla penna di Camilleri, ma anche per l’intensità interpretativa e l’eleganza realizzativa con cui è arrivato sul piccolo schermo. Lo svelamento nel teatro vuoto ha un che di ancor più struggente visto oggi, dopo un anno di teatri chiusi e la solitudine della pandemia, e quel “Ora siamo qui” finale inquieta, apre all’attesa che la storia si compia, anche se il finale proposto è perfetto per i tempi sospesi che stiamo vivendo. Ma confidiamo in un ritorno che chiuda il ciclo così come l’aveva immaginato Camilleri.

 

 

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