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Tv Talk, Massimo Bernardini a TvBlog: “L’Italia è totalmente, e forse patologicamente, malata di televisione”

Più di 20 anni in tv a parlare di tv: da Il Grande Talk alle 18 edizioni di Tv Talk, che torna sabato 13 ottobre su Rai 3.

pubblicato 12 Ottobre 2018 aggiornato 31 Agosto 2020 07:14

Tv Talk festeggia le sue prime 18 stagioni e si regala un kick-off di metà ottobre, sempre su Rai 3, sempre alle 15.00 e sempre con Massimo Bernardini alla conduzione, affiancato da Cinzia Bancone, Silvia Motta e Sebastiano Pucciarelli. Con loro un cast di giovani analisi, in parte cambiato, e di opinionisti vecchi e nuovi: tra le new entry Saverio Raimondo. Ospiti della prima puntata Lilli Gruber, Riccardo Iacona e Mara Venier, di cui si celebra in ritorno in Rai con Domenica In.

In occasione del debutto ci siamo regalati una chiacchierata con Massimo Bernardini, alla luce di una stagione tv appena iniziata, ma già all’insegna di alcuni ‘cambiamenti’, più e meno tangibili.

Partiamo dalle novità di questa edizione: so che ci sono nuovi opinionisti, che c’è un nuovo studio…

Ecco, direi che lo studio è proprio la cosa più importante. Sono contento, perché Rai 3 ha deciso di valorizzarci con un questo nuovo spazio che accoglie tre grandi schermi. Per noi che analizziamo la tv non è solo una questione ‘scenografica’, è un aspetto fondamentale. Ci permette di portare nel racconto televisivo il piano di ascolto degli ospiti collegati, oltre che rendermi più facile gestire il dibattito permettendomi di seguire meglio le loro reazioni. In sintesi serve a me e serve al pubblico a casa, perché permette di integrare quanto accade in studio con quel che succede al di fuori di esso. Sono dettagli importanti per chi come noi prende molto sul serio le immagini: uno pensa che la tv sia quello che si dice e invece no, è quello che si sta per dire, è quel che traspare dalle espressioni.

Resta la pagina dedicata alla comunicazione politica in apertura? 

Beh sì, così come la seconda parte più ‘pop’. Devo dire che dal punto di vista di Tv Talk questa stagione politica è assolutamente strepitosa. Noi abbiamo chiuso la scorsa edizione a giugno, agli esordi del nuovo Governo. Non abbiamo avuto modo di analizzarlo allora e così oggi ci troviamo ad analizzare protagonisti del tutto nuovi per noi. Abbiamo una gran voglia di capire come si muovono i vari Salvini, Di Maio, Toninelli, di vedere le loro caratteristiche, i loro vizi, i loro scivoloni, anche se poi quello delle gaffes è l’aspetto mediaticamente più banale. Mi fa, invece, riflettere il fatto che ai loro esordi gli esponenti del Movimento 5 Stelle erano i più estranei alla tv, mentre ora sono centralissimi. Penso anche a Tria, diventato un personaggio di Crozza, o al premier Conte, che si configura come un personaggio mediaticamente anomalo: appare ancora poco ed è ancora da scoprire come si muoverà in televisione. Dal nostro punto di vista, quindi, penso sia una stagione politica davvero intrigante, anche per quella loro certa ‘ingenuità’, diciamo così, che non li rende certo noiosi viste le loro continue uscite. Ecco, si può pensare tutto dei nuovi leader ma non che siano noiosi…

Riuscire ad analizzare il linguaggio politico e il comportamento dei nuovi leader rispetto ai media senza scivolare nel commento da talk politico tout-court non è facilissimo e non sempre riesce. A volte ho avuto la sensazione di seguire un dibattito politico non una disamina di testi comunicativi…

È la nostra battaglia. Prima di cominciare ricordo sempre agli ospiti che Tv Talk non è il ‘solito’ talk in cui si commenta la politica, ma si guarda al modo in cui comunica. Non ci interessa, ad esempio, il contenuto della manovra finanziaria, ma come è raccontata in tv e sui social media. Non è sempre facile ‘tenere’ a bada gli ospiti da questo punto di vista: molti di loro sono ‘opinionisti’ da talk tradizionale, abituati a un certo tipo di intervento sui temi politici, ma quell’approccio non è il nostro. È un po’ una fatica restare sui binari dell’analisi, ma cerchiamo sempre di scegliere ospiti che siano in grado di leggere mediaticamente la politica. Gli altri non ci interessano.

Per fare un parallelo forse un po’ azzardato, penso a Propaganda Live su La7 che lavora proprio sulla scomposizione e sull’analisi – ironica, amara, satirica – della comunicazione politica. Quasi in un controcanto agrodolce a Tv Talk. Loro si occupano essenzialmente di social, ma mai come in questo periodo il social è in tv e si sovrappone alla comunicazione istituzionale e politica un tempo veicolata dalla tv e dalla stampa. Sentite una sorta di ‘competizione’ con quel tipo di racconto, è una forma di ‘complemento’ al vostro tipo di analisi?

Diciamo che un’eventuale ‘competizione’ la sentiamo ormai con la tv nel suo complesso. Il nostro problema è che nel tempo la televisione – e tra Tv Talk e Il Grande Talk me ne occupo da vent’anni – ha sempre più parlato di tv e sempre più usato la tv. Del resto riempire un programma, anche un varietà, con spezzoni di repertorio è senza dubbio economico: questo fa sì che ogni ora televisiva sia piena di tv ed è questo da anni il nostro problema. Propaganda Live è l’ultimo arrivato ed è tra l’altro tra i più bravi a fare tv con la tv. La nostra chiave è più tecnica, anche se sempre all’insegna della leggerezza, anche dell’ironia: sappiamo che la tv resta un momento di svago per il pubblico.

 

Il rapporto tra gli italiani e la tv è sempre forte come un tempo?

Questo paese è totalmente e forse patologicamente ammalato di televisione, e di politica in televisione. Ce n’è una quantità assolutamente abnorme, che non si ritrova in nessun altro Paese al mondo. È anche l’indice che le risorse economiche del sistema tv sono poche: assistiamo a un moltiplicarsi delle ore di trasmissione con risorse sempre minori. I tempi floridi sono finiti da un bel pezzo, quindi, per tornare anche al discorso di prima, fare televisione sulla televisione con la televisione è il modo più economico che esiste.

 

E questo vi danneggia?

Da una parte sì, dall’altra però il fatto che continuiamo a conservare il nostro pubblico ci conferma la diversità della nostra chiave di lettura. Secondo me Tv Talk finirà quando diventeremo come gli altri, quando anche noi faremo dell’opinionismo qualsiasi o ci adatteremo alle risse.

 

Genere questo sempre in voga peraltro…

Devo dire che in questo inizio di stagione ne ho viste di notevoli. Con la differenza che un tempo accendevano l’Auditel, mentre adesso lo deprimono. Però mi colpisce il fatto che ci siano ancora zone ingovernabili nei talk. Personalmente nella conduzione le evito come la peste, ma del resto il clima serio, anche distaccato, che riusciamo a creare in studio le tiene ben lontane.

Tv Talk è iniziato 17 anni fa: erano gli albori del reality. Si commentavano Taricone e la gattamorta Marina La Rosa: ora uno dei loro compagni di avventura è portavoce del Presidente del Consiglio. Tanti dicono “È colpa della tv”. Lo è? Secondo lei, questa deriva xenofoba, questa accettazione ipocritica di qualsiasi slogan è figlia di un’assuefazione al racconto sensazionalistico della tv o è semplicemente frutto dell’inesorabile ciclicità ‘vichiana’ delle vicende umane? 

Guardi, quello che mi colpisce dei nostri nuovi leader è che si siano formati pesantemente come teledipendenti. Questo si vede, si nota. Penso ai praticamente coetanei  Salvini e Renzi (rispettivamente del 1973 e del 1975, ndr) che oltre ad aver curiosamente condiviso l’esperienza a La Ruota della Fortuna, sono entrambi molto interessanti e acuti quando fanno tv: si capisce che ne masticano e si capisce che guardato più ore di tv che letto libri. Non vuole essere una notazione moralistica, ma è un aspetto inevitabile dei tempi in cui si sono formati. Io che ho una ventina di anni più di loro sono cresciuto con la Rai monopolista, che a una certa ora ti mandava a letto, che aveva una finalità pedagogica. Loro, invece, son cresciuti in una tv totalizzante e i reality fan parte di questa totalizzazione.

 

La tv quindi ha le sue colpe?

Nel tempo capiremo se tutto questo ha migliorato o peggiorato la qualità della nostra politica, della nostra scuola, del nostro lavoro, delle nostre relazioni, del nostro Paese insomma. Negli anni ’80 abbiamo fatto una scelta molto precisa sulla moltiplicazione dell’offerta tv e man mano che passano gli anni ci rendiamo conto che tutto questo ha influenzato la nostra classe dirigente: i nostri quadri vengono ormai da questo ‘nuovo mondo’. Lo chiamo ‘nuovo’ perché 30 anni in fondo non sono molti. Ora cominciamo a vederne i risultati. Ognuno può pensare e valutare se ci ha fatto bene o ci ha fatto male.

 

Tornando alla sua osservazione sulla tv che si nutre di tv e sull’Italia ‘malata’ di televisione e di politica, mi viene da pensare al giornalismo televisivo inteso come unica ormai forma di ‘originalità’ in un contesto in cui tutto è riuso, remake o reboot. Mi viene da pensare che i conduttori di talk politici siano in fondo i ‘veri’ personaggi tv ‘nuovi’, con atteggiamenti anche molto istrionici: penso alla prima di Matrix, con la steady dal basso verso l’alto di Porro, o la conduzione peripatetica di Greco, giusto per citare due tra i più recenti esempi. Sono davvero i giornalisti i nuovi personaggi tv?

Alla base di quel che osserva c’è un’emergenza della tv italiana, credo anche questa esclusiva del nostro Paese, cioè lo strapotere dei giornalisti nella conduzione e nella dirigenza. E lo dico da giornalista. Penso sia un bene che il nostro attuale Direttore Generale, Fabrizio Salini, non sia un giornalista, come del resto non lo era Campo Dall’Orto. Il giornalista ha un certo tipo di approccio con lo strumento tv – e, ribadisco, lo dico da giornalista che peraltro si è formato sulla carta stampata – molto contenutistico, poco televisivo. Pensiamo alla conduzione di Baudo: Pippo è sempre stato padrone dello studio e delle telecamere e sapeva in ogni momento cosa stavano inquadrando, cosa cercavano, cosa facevano. Quello dei giornalisti conduttori, e penso innanzitutto al mio modo di condurre, è un altro linguaggio: non stiamo attenti alle camere, ma siamo focalizzati sul contenuto, sulle dinamiche in studio, non a come ci vedono da casa. Magari alcuni sono più bravi a tenere il ritmo, a creare un pathos, ma il linguaggio tv è diverso: tutto questo per dire che il fatto che i conduttori italiani siano tutti giornalisti non so se sia un bene per la televisione italiana.

 

Lei però accennava anche alla dirigenza…

Esatto. L’altro aspetto è che gran parte dei dirigenti sono giornalisti. Fino a poco tempo fa anche il nostro DG era giornalista (Mario Orfeo, ndr). In Mediaset questa deriva non c’è mai davvero stata, forse perché l’imprinting berlusconiano è rimasto forte. Questo discorso sul giornalismo imperante può sembrare secondario, ma io penso che la tv italiana possa salvarsi da questa tendenza alla chiacchiera continua e tornare a immaginare dei prodotti diversi solo uscendo da questo ‘perenne giornalismo’, preziosissimo da un certo punto di vista, ma la tv ha bisogno di gente che abbia uno sguardo visivo.

Come se si stesse sacrificando il proprio specifico…

Per fare un esempio, Alessandro Cattelan è uno che fa davvero tv. La legge della televisione, in fondo, è sempre stata questa: grandi conduttori con alle spalle grandi autori. È la deformazione degli ultimi decenni che ha portato ad avere giornalisti-autori, come me del resto, a guidare le trasmissioni.

 

Però adesso quando c’è un autore dietro, un minimo di scrittura si vede subito…

Per restare sull’esempio Cattelan. lui è fortissimo sul piano del linguaggio, ma gli servirebbero autori un po’ più forti in maniera da poter affrontare anche cose più strutturate.

 

A voler tirare le somme di questa nostra chiacchierata, cosa pensa manchi in questo momento in tv e cosa cancellerebbe.

Penso manchi un po’ di pura invenzione creativa. Da troppi anni la tv italiana è ricattata dalla lunghezza e da un uso indebito degli ascolti. Da una parte siamo gli unici al mondo ad avere una prima serata da 180′: una cosa folle. Anche perché un programma di 180′ è destinato per forza ad avere una parte che faccia schifo: è impossibile far bene tutti i 180′, tanto più con le poche risorse che abbiamo.

A questo si aggiunge l’uso che viene fatto dell’Auditel: l’ascolto è diventato il ‘giudizio di Dio’ e di questo do colpa anche all’opinione pubblica e alla stampa. Il giorno dopo un debutto sui giornali è tutto un “ha vinto”, “ha perso”, non si commenta se sia bello, brutto, interessante: una deformazione che investe tutto il corpo giornalistico italiano, di cui magari si serve strumentalmente, e che non vedo altrove nel mondo. Ha mai visto su Le Monde in prima pagina “Ieri sera ha vinto x o y?”: giusto così, c’è altro da raccontare su un programma tv. Da noi, invece, l’ascolto si trasforma da strumento di valutazione a condanna, col risultato che non si può più sperimentare niente in Italia: tutto deve massimizzare gli ascolti, anche il programma di nicchia. Anche a Rai 5, per dire, vedo che vita e morte di un programma si giocano molto sugli ascolti.

 

Quindi da una parte manca l’invenzione creativa, soffocata dall’Auditel e dall’eccessiva lunghezza dei programmi: è questa che cancellerebbe dalla nostra tv?

Sì, cancellerei questa deriva tutta italiana della lunghezza, che non caratterizza solo la prima serata, ma anche i pomeriggi. Con tempi troppo lunghi sei costretto ad allungare il brodo e quindi a renderlo meno sapido, meno interessante. Io per fortuna ho i miei 90′ e ringrazio Iddio. Per un periodo Tv Talk è durato 110′ e inevitabilmente anche lì ‘la fuffa’ saltava fuori per forza.

Ha avuto problemi di massimizzazione degli ascolti anche con Nessun Dorma?

No, lì ho una relativa libertà. Il punto però è che i canali tematici come Rai 5 o Rai Storia, per i quali peraltro lavoro, fanno ascolti talmente bassi da essere semplicemente ‘cassati’: per stampa e opinione pubblica semplicemente non esistono. Si parla piuttosto sempre delle stesse cose, come la sfida tra la d’Urso e la Venier, ignorando invece quel che i canali tematici propongono per l’intera giornata: tra prodotti di acquisto e interni ci sono cose di grande qualità. Tutti a volere che la Rai faccia cultura, servizio pubblico, che debba ‘meritarsi’ il canone, ma nessuno sembra ricordarsi della programmazione di alto profilo dei tematici, in primis stampa e opinione pubblica: un cortocircuito assurdo.

 

Lei è uomo di storia, è appassionato di musica, autore di programmi culturali: a TvTalk a volte dà l’impressione di ‘cadere dal pero’ su certi argomenti, fenomeni, eventi pop. Quanto c’è di ‘reale’ in questo suo atteggiamento ‘naif’ e quanto di costruito? 

Beh, partiamo dal fatto che siamo su Rai 3, non proprio una rete up-to-date. Vive ancora dell’immagine della rete di frontiera che le ha dato Angelo Guglielmi, ma se si guardano i target raggiunti si capisce che non è poi così ‘sul pezzo’, diciamo. Noi con Tv Talk un po’ di giovani li raggiungiamo, ma se guardo alla media di rete ci si rende conto che da questo punto di vista Rai 1 e Rai 3 si assomigliano molto.

Però Rai 3 è tra le più vivaci nella proposta di nuovi format, per durata – e torniamo al discorso dei programmi da 30’/60′ – e per argomenti. In più il vostro è un pubblico attento, appassionato di linguaggio tv, che cerca proprio l’analisi…

Questo, però, non vuol dire che sia giovane. Sapendo di avere un pubblico di una certa età, un po’ ci gioco anche con la mia di età. Non dimentichiamo che io sono il più ‘grande’ della congrega (sorride), sono il padre fondatore ma anche il più agée, autori inclusi. Se quindi da una parte mi diverto a fare la parte del”anziano’ soprattutto di fronte a certi fenomeni del web, con Cinzia Bancone pronta a prendermi in giro nei nostri ‘siparietti’ sui social, c’è poi anche una distanza reale da certi fenomeni pop, dettata in fondo anche dagli anni. Non riesco proprio ad appassionarmi a determinati argomenti o a certi personaggi: rapper e influencer non riescono a scaldarmi, diciamo così… li trovo da grado zero, ecco.

 

Quindi, per tornare alla domanda sull’atteggiamento ‘naif’…

Diciamo che è per metà vero e per metà messa in scena (sorride), ma penso che gran parte del nostro pubblico si identifichi nella mia distanza da certi fenomeni. Una distanza, però, sempre ironica, eh, mai moralistica: non mi appartiene. Certo è che non vado a spulciare le stories di Ferragni, Fedez e del loro figliolo ecco… Per usare un’espressione romanesca, ‘non me ne può frega’ de’ meno’ (sempre sorridendo). Poi l’analista che c’è in me cerca di capire perché questo tipo di fenomeno sia diventato così importante e non solo in Italia.

Lei prima sottolineava come fosse auspicabile che non ci fossero più giornalisti tra i  vertici Rai. Ma se lei diventasse Presidente della Rai, quale sarebbe la prima cosa che farebbe? 

Beh, devo dire che non ci ho mai pensato. Diciamo che non ci tengo proprio, eh, ma più che altro perché dirigere la Rai non si traduce nella concreta possibilità di creare una linea editoriale, ma vuol dire avere una capacità di mediazione con la politica che francamente non ho, non avrò mai e non mi interessa nemmeno. Anzi, porto come vanto il fatto di non aver mai ospitato un politico in 18 anni di Tv Talk. Però se per caso dovessi diventare Presidente (e qui ride) la grande urgenza sarebbe quella di avere dei quadri profondamente televisivi, dei grandi conoscitori di televisione. La Rai ne ha avuti, anche recentemente: penso a Ilaria Dallatana, un grande dirigente tv, moderno, sveglio con esperienza. Ecco, io mi dedicherei a ricostruire una classe dirigente interna di grande qualità, aggiornata, tecnica, senza rimasugli, ahimè, di tante gestioni succedutesi nel tempo. È un fenomeno questo che in fondo è nuovo: quando ho iniziato, la Rai era piena di dirigenti di altissimo livello. Ecco, mi piacerebbe fare questo da Presidente: ricostruire quadri e dirigenza interna di alto profilo. Ho grande rispetto per gli attuali dirigenti della Rai, ma ho come l’impressione che certi tempi siano cambiati…

Un po’ come rifondare la Rai degli esordi, quando a costruirla furono chiamati grandi esponenti del teatro, della letteratura…

Beh, quella Rai lì, quella di Zavoli, Eco, Bernabei è irripetibile, anche perché avevano molte meno ore da produrre (sorride). Uno dei problemi dei dirigenti di oggi è anche quello della quantità: bisogna produrre tonnellate di ore e la qualità non può essere sempre alta, 24 ore su 24. Non ci sono neppure le risorse per farlo. Io sono convinto che ci voglia un servizio pubblico più snello anche in questo. La qualità può crescere solo restringendo il perimetro dell’offerta: oggi è troppo vasta.

 

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