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Simone Corrente, dal successo di Distretto di Polizia alla nuova vita in Indonesia: “Ero schiavo degli oggetti e del tempo”

Simone Corrente: “Ai tempi di Distretto di Polizia ci spostavamo col bodyguard, si rasentò la follia. Finita la serie avevo bisogno di tempo per me. Godevo di soldi e popolarità, mi mancava la felicità. Decisi di cercarla e partii per l’India”

10 Marzo 2024 09:00

Lasciare tutto e cambiare vita, quando sei all’apice. E, come se non bastasse, farlo dall’altra parte del mondo, staccandosi da amici e parenti. “Tutti mi dicono che ho avuto coraggio, ma secondo me ci vuole più coraggio nel continuare a condurre un’esistenza che non ti fa felice”, spiega Simone Corrente a TvBlog. “Sentivo che era la scelta giusta e ho seguito quella strada. Certo, non è stato semplice, però ho creato le giuste condizioni. Ricordati che siamo noi gli architetti della nostra vita”.

Classe 1975, Corrente deve la sua popolarità soprattutto a Distretto di Polizia, dove per undici stagioni ha dato volto, voce e anima all’agente Luca Benvenuto. In precedenza c’era comunque stato molto altro. “I primi provini risalgono a quando avevo 13-14 anni. Iniziai con qualche servizio fotografico, per proseguire poi con i fotoromanzi e le pubblicità”. Tra gli spot di cui va più orgoglioso c’è quello in cui ricoprì i panni di un diciottenne Alex Zanardi alle prese con l’esame di guida: “Fu commissionato dalla Honda, team col quale aveva appena vinto il Mondiale di CART. Lo girammo in Umbria e percorrevo le stradine di Orvieto. L’esaminatore mi promuoveva, ma appena aprivo la portiera colpivo un signore in bicicletta. A quel punto compariva il vero Zanardi, che esclamava: ‘Meno male che la mia macchina non ha gli sportelli’. Lo trovate facilmente su Youtube”.

La svolta, quella vera, si palesò poco dopo grazie a Stefano Reali, che lo volle nel film tv Cuori in Campo: “Era una produzione italo-canadese, girammo una settimana a Roma e il resto a Vancouver. Ero il protagonista e con quell’esperienza cominciai davvero a capire il mondo dello spettacolo. Nel cast c’erano Giancarlo Giannini, Burt Young, Maurizio Mattioli. La Rai avrebbe preferito un altro ragazzo, ma Stefano volle me”.

Sempre Reali fu il regista di Ultimo.

Sì, gli devo molto. Siamo ancora in contatto, gli voglio tanto bene. Al di là del fatto che fu il mio primo regista, è una persona perbene. Girammo due stagioni di Ultimo e furono entrambe dei grandi successi.

E’ vero che ti ordinò di fare palestra?

Dimostravo meno anni di quanti ne avessi. Se oggi è un valore aggiunto, da piccolo rappresentava un problema. Ero troppo esile e mi consigliò di mettere un po’ di muscoli. Tra Cuori in campo e Ultimo si nota infatti un netto cambiamento fisico.

A breve distanza entrò in scena l’idea di Distretto di Polizia. Anzi, di Turno di notte.

Vero, si sarebbe dovuto chiamare così in quanto in origine si pensò a vicende ambientate in un distretto notturno. Poi le idee si svilupparono e presero altre forme. Ad ogni modo, il cuore del progetto era già stato individuato, a partire dalla casa di produzione, la Taodue di Pietro Valsecchi, che volle gran parte degli attori di Ultimo. Ecco allora Giorgio Tirabassi, Ricky Memphis e me.

Persino Raoul Bova realizzò un cameo nel primissimo episodio.

Roba di pochi minuti. Raoul non avrebbe mai accettato di lavorare ad una serie a così lunga serialità.

Come fu il primo impatto?

Quando stai accanto a bravi attori impari tanto. Giorgio e Ricky erano già professionisti affermati, io invece ero un bambino che non sapeva cosa significasse fare quel mestiere. Capii gradualmente che sarebbe potuto diventare il mio lavoro. Le cose te le conquisti pian piano e io sono stato fortunato. Non ho studiato recitazione, ma ho frequentato la scuola della vita con dei compagni meravigliosi. Il successo di Distretto lo costruirono loro, era giusto che stessero un passo avanti a me.

Luca, il tuo personaggio, modificò il cognome in corsa.

Nella prima stagione si chiamava Benvenuti. In seguito lo modificarono, se non erro per via di una segnalazione di un omonimo agente di polizia.

Luca era un poliziotto omosessuale. Per una fiction di inizio millennio si trattò di una mezza rivoluzione.

Lo spunto arrivò da Valsecchi. In un primo momento rimasi scosso, mi chiedevo come avrei potuto interpretarlo. Non era facile trovare la chiave giusta, dargli un equilibrio. Era il 2000, ma in tv l’immagine del poliziotto gay non era ancora stata sdoganata. Ne parlai con il regista Renato De Maria e gli spiegai che non avrei voluto cimentarmi in una macchietta. Decisi quindi di mettere in campo la sensibilità, un lato caratteriale che non mi mancava e non mi manca.

Nel tempo i riferimenti all’omosessualità svanirono. Anzi, Luca ebbe storie con delle donne.

Quell’aspetto è andato a sfumare anno dopo anno e il personaggio si è evoluto, mostrandosi diverso dagli albori. Io mi limitavo a seguire quello che c’era scritto in sceneggiatura, senza porre troppe domande. Se quella era la direzione desiderata, il mio compito era quello di adeguarmi. Quando sei sotto contratto punti a fare bene il tuo lavoro. Non so dare risposte in tal senso, forse a fronte di un Luca più forte e deciso non faceva piacere che emergesse quel lato ed è stato alleggerito.

Dopo un avvio in sordina, il successo di Distretto di Polizia toccò vette altissime.

Servì del tempo. Era normale, la storia d’amore tra noi e il pubblico aveva bisogno di essere coltivata. Ma quando dopo il secondo anno esplose, si rasentò la follia. Noi attori ci spostavamo col bodyguard, in alcuni casi non era possibile girare. Eravamo sconvolti, c’erano centinaia di persone ad accoglierci ed eravamo i primi ad esserne stupiti. Nessuno di noi aveva mai lavorato ad una fiction di parecchie stagioni. Venivamo dagli ottimi risultati di Ultimo, ma se totalizzi 10 milioni e le puntate sono complessivamente due, non c’è tempo di far innamorare la gente di te. Se invece la striscia si allunga, le persone vanno in visibilio. E guai ad interrompere quella relazione. Fai parte della loro famiglia.

Era difficile girare in esterna con tutti quegli occhi addosso?

Quando sei così tanto osservato, paradossalmente acquisisci una maggiore concentrazione. Vuoi portare a casa la scena il prima possibile, non vuoi sbagliare. Senza contare l’adrenalina che hai in corpo.

Al termine della seconda stagione Isabella Ferrari si congedò, lasciando il campo a Claudia Pandolfi. Come reagiste a questo primo scossone?

Quando hai colonne come Tirabassi e Memphis non temi nessuno. Inoltre, avevamo Marco Marzocca, Gianni Ferreri, Daniela Morozzi e il compianto Roberto Nobile, quattro mostri sacri in seconda battuta. Non c’erano problemi, la gente era innamorata. Se un prodotto è scritto bene, puoi inserire chiunque. L’affetto era talmente grande che eravamo sicuri che il pubblico ci avrebbe continuato a seguire. Claudia portò colori nuovi, così come le altre new entry. In Distretto di Polizia sono passati gli attori più bravi in circolazione: Anna Foglietta, Giulia Michelini, Giulia Bevilacqua, Michele Riondino. Anche Alessandro Borghi recitò in un episodio.

Quando hai cominciato a percepire il declino della serie?

Dopo la sesta stagione. Erano usciti diversi personaggi e col passare degli anni iniziò ad abbassarsi il budget. Diventava difficile scrivere bene, le scene avevano meno azione e meno freschezza. Non era facile realizzare 26 puntate l’anno. Ci sbattevano a destra e a manca, venivamo spremuti. Come in tutte le cose esiste un picco e la successiva discesa. L’abbandono di Memphis e Tirabassi fu determinante.

In compenso, come accennavamo prima, Luca Benvenuto acquisì spazio ed importanza.

Sono cresciuto assieme a lui. Quando Valsecchi mi comunicò che sarei diventato protagonista faticai a crederci. Non mi sentivo nella posizione di poter aspirare a quel ruolo, mi imbarazzava l’idea di prendere il posto di attori più maturi di me.

Distretto di Polizia chiuse dopo undici stagioni. Fu complicato riaffacciarsi sul mercato?

Dopo undici anni nei panni dello stesso personaggio molte porte si chiudono, inevitabilmente, ma dopo Distretto si presentarono progetti consistenti. Io però non avevo la forza di inserirmi dentro ad una nuova storia a lunga scadenza. Avevo bisogno di tempo per me. Avevo soldi e popolarità, mi mancava la felicità. Decisi di cercarla, volli indagare.

Da qui la decisione di partire per l’India.

Avevo lavorato 8-9 mesi l’anno, per un decennio, a ritmi assurdi, una prova che mi aveva scombussolato. Capii che il castello su cui ero poggiato stava crollando. Chiusi alcune situazioni che andavano per forza sistemate e decisi di imbarcarmi in un viaggio di sola andata. Presi lo zaino e salutai. Ero arrivato ad un punto che non potevo più sostenere quel tipo di vita. Ero schiavo degli oggetti e del tempo. Era quella la radice della mia sofferenza, ovvero il tempo illusorio che uno ha dentro la mente, il dover pensare sempre al futuro, al prossimo film. Cominciai a puntare l’attenzione su ciò che non cambia mai, piuttosto che su ciò che cambia in continuazione. Se appena conquisti qualcosa pensi subito al timore di perderla, vivi dentro ad una costante ansia. E’ un approccio che ti nega la vita.

Hai lavorato profondamente su te stesso.

Mi sono posto delle domande e, anziché porre l’attenzione sull’esterno, ho acceso i riflettori su di me. Gli attori pronunciano la parola ‘io’ mille volte al giorno. Ma io chi? Se ti poni questo interrogativo, si aprono scenari bellissimi. Se hai la forza di approfondire, inizia il viaggio della vita e il lavoro diventa una piccolissima parte rispetto a quello che stavi perdendo.

In India hai pure trovato l’amore.

Ho incontrato Suman, australiana residente a New York, anche lei con un biglietto di sola andata per l’India. Ci siamo incrociati in una scuola di meditazione tantrica. E’ capitato di meditare assieme e da lì è nata la relazione. Siamo ancora insieme dopo dieci anni. Con lei mi sono trasferito in Indonesia, dove ero già stato prima di conoscerla. Avevo visitato l’isola di Komodo e ne ero rimasto affascinato. Le ho detto che sarei voluto tornare là. Abbiamo aperto un ristorante di sushi, l’Happy Banana. Parliamo di uno dei posti con il maggior sviluppo economico e demografico.

Avevi già avuto in Italia un’esperienza nel mondo della ristorazione, assieme a Memphis.

Esatto, ma era diverso. Facevo l’attore e non ci avevo mai lavorato, mi limitavo ad amministrarlo. Qui in Indonesia mi sono ritrovato a costruire il locale da zero, a creare il menù con mia moglie, ad interloquire con persone da tutto il mondo senza conoscere mezza parola d’inglese, a servire la gente ai tavoli.

Stare lontano dalla famiglia e dagli amici italiani non ti pesa?

Il mio migliore amico è dietro l’angolo, io ragiono così. Se nella vita resti legato alle solite persone, non rompi mai il muro e non esci mai dal giro. Spesso la famiglia diventa un alibi. E’ un valore stupendo, ma non può essere una scusa. Se tu stai bene, i primi ad essere felici per te dovrebbero essere i tuoi familiari e i tuoi amici. Mia madre quando la informai che sarei voluto partire per l’Oriente si disperò, ma quando mi sentì per telefono e capì che stavo bene, nel suo cuore scattò la felicità. Nella vita, a volte, bisogna attuare degli strappi.

Nel 2021 sei diventato padre.

Proprio durante il covid mia moglie mi rivelò di essere incinta. ‘Tempistica meravigliosa’, pensai (ride, ndr). In quel periodo abbiamo aperto un altro locale a Bali, Casa Curandera. Una cornice perfetta per accogliere un bambino in un momento di paura collettiva.

Dunque gestisci ben due ristoranti.

Le due isole distano un’ora di volo. Fisicamente non siamo più presenti, ci limitiamo a controllare e a coordinare la parte creativa. Abbiamo fatto crescere dei ragazzi bravissimi e adesso camminano sulle loro gambe. Per cinque anni ho lavorato senza sosta, dalla mattina alla sera e un giorno ho detto a mia moglie che dovevamo riposarci. Fortunatamente ho molto tempo libero, ne approfittiamo per viaggiare. Siamo sempre in giro.

Nel 2022 sei tornato in Italia e la tv ha ribussato alla tua porta.

Ero rientrato per far conoscere mio figlio a mia madre e decisi di rivedere le persone che avevo perso di vista da una vita. Giulia Bevilacqua fu una delle prime. Ci eravamo già sentiti ed eravamo rimasti in buonissimi rapporti dopo la fine della nostra relazione. Lei ha conosciuto la mia famiglia ed io la sua, è stato meraviglioso. In quel frangente ricontattai anche la mia agente e mi informò che c’era in ballo un ruolo per Una mamma all’improvviso, film di Mediaset che avrebbe sancito la reunion tra me e Giulia. Accettai, fu un’esperienza catartica per entrambi, molto più interessante della parte attoriale.

In quei mesi di set non è scattata la nostalgia per la professione?

Non ho sbarrato la porta, l’ho lasciata socchiusa, ma non mi vedo di nuovo in Italia. Tutto può succedere, l’Italia è il Paese più bello del mondo, però amo l’Asia e sto bene qua. Il film è stato un dono inaspettato, mai mi sarei immaginato un rientro del genere.

Da allora non ti sei più riaffacciato?

No. Sono stato quattro mesi in Italia e l’ho girata in lungo e in largo. Ho trovato una Roma molto cambiata, con meno romani e più turisti. Poi sono andato in Sardegna, Puglia, Sicilia e Toscana. Vedere l’Italia da turista è proprio bello, non sei coinvolto, non hai pensieri. Me la sono presa comoda.

Dall’Indonesia segui la tv italiana?

Zero. Non ho il televisore a casa, da sempre. Sono dodici anni che non ne accendo uno. Quando tornai in Italia fu scioccante notare i mille cambiamenti di cui non ero a conoscenza. Sia chiaro, so cosa succede nel mondo, ma non ho i dettagli sull’Italia. Mi giungono poche notizie e non vado mai in profondità. D’altronde, non essendo una realtà che vivo, perché mi devo intristire? Non seguo più nemmeno il calcio e la Nazionale, non sento lo stimolo di dover far parte di un club. Punto l’attenzione sulle cose che uniscono e non su quelle che dividono.