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Fabio Mazzari: “Il mio Alfio Gherardi era amatissimo. Mediaset tentò in tutti i modi di salvare Centovetrine, per Vivere invece non fece nulla”

Fabio Mazzari: “Mi scelsero per il ruolo all’ultimo momento e venni provinato anche per la parte di Giovanni Bonelli. Il successo di Vivere fu imprevedibile. Centovetrine? Una cugina cattiva. Non mi hanno mai proposto un reality. Credo che rifiuterei”

25 Febbraio 2024 09:25

Originario di Bologna, trapiantato per anni a Milano, oggi residente ad Eboli e con un passato da sindaco di Como. Basterebbe questo per raccontare le mille vite di Fabio Mazzari, e poco importa se la carica di primo cittadino la ricoprì per finzione, in Vivere, soap che lo vide protagonista nei panni di Alfio Gherardi dal primo all’ultimissimo episodio. Un’esperienza nel tempo difesa, rivendicata, coccolata e mai rinnegata.

Eppure Mazzari è stato anche altro. Oltre alla televisione, molto teatro, doppiaggio e radio, con tanto di trasferte in Svizzera. “Lugano distava pochissimo da Milano e la radio svizzera italiana ci chiamava spesso per realizzare degli sceneggiati bellissimi, degni del cinema”, racconta l’attore a TvBlog. “Loro non avevano un vivaio di attori e si affidavano agli italiani. Tra i tanti progetti ci fu la rappresentazione de I fratelli Karamazov”.

Il caso e la fatalità hanno a più riprese accompagnato Mazzari, fin dal 1968, quando tutto partì. “In realtà avrei voluto fare il regista, mi interessava il teatro come fenomeno culturale, come allestimento, lettura e ricostruzione di un testo sul palcoscenico. Mi avvicinai a quel mondo all’università, poi iniziai a lavorare in una compagnia più professionale e conobbi la mia futura moglie. Non so se per un’indisposizione o altro, un attore diede forfait alla vigilia e l’unico che avrebbe potuto sostituirlo ero io, in quanto conoscevo più o meno tutte le parti a memoria. Provai, la cosa funzionò e continuai”.

Un evento fortunato le spalancò anche le porte di Vivere.

Il racconto delle selezioni equivale alla trama di un film comico. Il mio nome venne dato alla produzione da un mio amico e venni contattato un venerdì nell’ultimissimo giorno di provini, che erano durati per ben due anni. Ero in sala di doppiaggio e chiesi di mandarmi il copione. Lasciai il numero di fax del negozio di mia moglie, ma mi richiamarono dicendomi che non funzionava. Allora mi spedirono il materiale tramite un pony express e mi dissero che, eccezionalmente, avrebbero allungato i casting al lunedì successivo, per permettermi di studiare nel weekend.

E il lunedì come andò?

Mi dimenticai dell’appuntamento (ride, ndr). Mi tornò in mente la sera e li richiamai, scusandomi. Evidentemente era destino che andasse in porto. Alfio era l’unico personaggio che non avevano ancora individuato, però mi provinarono anche per il ruolo di Giovanni Bonelli. Stesso discorso per Giorgio Biavati, che provò sia il ruolo di Giovanni che di Alfio. Mi domandarono se mi sarei sentito più a mio agio come industriale o locandiere. Scelsi la prima opzione e Giorgio, a cui avevano posto l’identico quesito, scelse la seconda. Il resto è storia.

L’esordio avvenne il primo marzo del 1999. I ciak, invece, quando scattarono?

Nell’ottobre precedente. Mi fecero un contratto di due anni, in seguito rinnovabile anno per anno. Per me era uno scenario nuovissimo, non ero abituato alla lunga serialità. Avere di fronte un biennio di riprese mi allettava ed incuriosiva e, venendo dal teatro, sapevo che avrei faticato di meno.

Il cast era un mix di ‘anziani’ esperti e giovanissimi in rampa di lancio.

Facevamo da coach agli esordienti. Nei primi tempi, se ti ricordi, la maggior parte delle scene si svolgeva negli interni. Colazioni, pranzi, cene, dove i giovani si confrontavano con i genitori. Gli attori provenienti dal teatro sostenevano le scene con più esperienza.

Il suo Alfio era amatissimo.

Effettuarono un sondaggio, coinvolgendo delle famiglie campione. Si scoprì che nei primi mesi, a sorpresa, Alfio Gherardi era il più gradito dal pubblico. Una notizia che stupì tutti, me compreso. Credo che il segreto fosse l’idea di questo industriale buono, in un’epoca in cui i tycoon erano fascinosi e cattivi, sulla scia di J.R. di Dallas.

Vivere arrivò addirittura a 5,5 milioni di spettatori, sfondando il muro del 30% di share. Un vero e proprio fenomeno collettivo.

Nessuno di noi avrebbe mai potuto prevedere un tale successo. Quando Alfio venne sequestrato decisero di prolungare il rapimento. In origine sarebbe dovuto durare molto meno. Andò avanti per un mese intero, tanta era la passione del pubblico. Raggiungemmo un’audience incredibile e a farmi riflettere sul livello di affezione fu un racconto che mi fece Lorenzo Ciompi.

Ossia?

I rapitori avevano chiesto un riscatto altissimo e la famiglia Gherardi non aveva la possibilità di pagarlo. Un giorno Lorenzo camminava per Roma e gli si accostò una vecchina: ‘Lei è il figlio di Alfio?’, domandò. Ciompi stette al gioco e lei tirò fuori dal portafogli 10 mila lire. Questo era il grado di amore dei nostri fan. Tra l’altro, nell’occasione del sequestro mi feci crescere la barba e proposi alla produzione di mantenerla, per cambiare volto dopo quella disavventura. La trovata piacque e venne accolta.

Tutto fantastico, fino al famigerato 8 gennaio 2001, quando si verificò lo sfratto pomeridiano da parte di Centovetrine. Come reagiste?

Ci fu la rivolta degli attori e del pubblico. Ci fermavano per strada implorandoci di non cambiare orario, ma non dipendeva da noi. Mediaset aveva bisogno di un titolo forte da piazzare alle 12.30 e pensò a Vivere. Minacciammo lo sciopero e nei vecchi studi di Milano ci raggiunsero Piersilvio Berlusconi e Maurizio Costanzo, che era direttore delle fiction. Io e Veronica Logan fummo delegati ad interloquire con loro. Provammo a spiegare che lo spostamento ci avrebbe fatto perdere tanti spettatori, che non tutti avevano il videoregistratore, che le persone volevano gustarsi la soap in diretta e che a mezzogiorno e mezzo in molti non sarebbero rientrati in tempo a casa. Purtroppo non riuscimmo a convincerli. In quella fascia Canale 5 aveva uno ascolto bassissimo e tenemmo comunque testa alla concorrenza, toccando il 20%. Ad essere felice fu soprattutto Mentana, che si ritrovò con il Tg5 protetto da Vivere e Beautiful.

Seppur lentamente si innescò il doloroso declino.

Il set si spostò da Milano a San Giusto Canavese, negli studi di Telecittà dove si girava pure Centovetrine. L’obiettivo era quello di creare un polo delle fiction. Tuttavia, nel 2008 esplose la crisi che spazzò via tutto.

Per tentare il rilancio si varò persino il salto temporale, con tutte le trame posticipate di un anno.

Eliminarono drasticamente una serie di personaggi e di storie. Gli spettatori si ritrovarono di fronte a trame completamente nuove. Durante una riunione tra attori e staff spiegai che ci sarebbe stato bisogno di alcune puntate di raccordo, o di un narratore che spiegasse la situazione al pubblico, in modo da non spiazzarlo. Non fecero nulla. Un giorno mi capitò di chiacchierare con una importante giornalista televisiva che recensiva le soap e mi confessò che alla ripartenza di Vivere non ci aveva capito niente. Figuriamoci cosa avrebbe potuto raccapezzarci una persona comune.

 Con il trasloco su Rete 4 arrivò la mazzata finale.

Rete 4 era una sorta di cimitero degli elefanti, il luogo dove si va a morire. Ci furono due pesi e due misure: quando Centovetrine entrò in crisi, pur di salvarla la piazzarono in prima serata e nel preserale. Se l’avessero fatto anche con Vivere, non so come sarebbe andata. Per loro fecero l’impossibile, per noi non fecero niente.

La sensazione è che abbiate percepito Centovetrine come la ‘cugina cattiva’. Sbaglio?

Per quel che mi riguarda fu così. Gli altri magari lo pensavano senza confessarlo. Dopo le feste di Natale gli appassionati riaccesero il televisore e, anziché Vivere, trovarono Centovetrine. Ebbero di colpo milioni di spettatori e andarono in giro contenti a vantarsi. Ma non erano spettatori loro, glieli avevamo regalati noi. Presero addirittura i nostri migliori sceneggiatori. Da lì cominciò la mia guerra personale, ma non contro gli attori, che erano colleghi rispettabilissimi.

Se Vivere era una soap pane ed olio, Centovetrine aveva le sembianze di un piatto di caviale. Si riconosce in questi paragoni?

Li trovo perfetti. Vivere aveva una dimensione casereccia, artigianale. Non aveva quel tocco di ‘beautifulismo’ che al contrario possedeva Centovetrine, che era stata generata con quel criterio.

Il salto da Vivere a Centovetrine venne compiuto da diversi attori. Prese mai in considerazione questa eventualità?

Appena terminò Vivere, a Centovetrine stava per entrare un personaggio della mia età. Risultai adatto, ma si posero un problema: ero troppo riconoscibile come Alfio Gherardi. Ancora oggi mi associano a lui. Ammetto che la paga di Mediaset mi avrebbe fatto comodo, però se mi fosse arrivata la proposta non avrei accettato. Mi sarebbe sembrato un tradimento.

Ammette quindi che la profonda identificazione col personaggio può diventare un ostacolo alla carriera.

Feci questa riflessione, ma avevo quasi sessant’anni, avevo successo e guadagnavo molto bene. Ero gratificato ed ero convinto che una volta conclusa l’avventura a Vivere sarebbe stato possibile riciclarsi in un’altra veste. Non fu così. Un agente mi avvisò: ‘sappi che per far dimenticare il tuo personaggio devi far passare almeno due anni’. A quel punto, l’unica soluzione era quella di calcare un altro terreno di gioco, uscendo dalla sfera televisiva.

Da dove ripartì?

Ebbi presto un’occasione nel cinema. Nel 2008 avrei dovuto girare un film drammatico con Diego Abatantuono, che si sarebbe dovuto calare nei panni di un ex campione di rugby che tirava su ragazzi di strada e ripuliva piccoli delinquenti. Io avrei dovuto interpretare un industriale che credeva in questo progetto. Era tutto pronto, ma non se ne fece niente sempre a causa della crisi. La stessa sorte la subì anche la versione italiana di Ugly Betty, mai partorita. Mancava il ruolo del padre e pensarono a me, sarei stato perfetto. Peccato. Sono felice di essere ricordato come Alfio, ma quelle due chance mancate mi preclusero la possibilità di cambiare.

In pochi sanno che ha prestato la voce a Jack Nicholson, Burt Reynolds, Christopher Lloyd e Jean Claude Van Damme.

Doppiare Van Damme in Cyborg non fu complicato, dato che era tutto un ‘uh’, ‘oh’, ‘ah’ che si accompagnava ai suoi combattimenti. Riguardo a Nicholson, Reynolds e Lloyd devo precisare per correttezza che erano quasi tutti tv movie datati per i quali erano scaduti i diritti e che venivano ridoppiati con voci che non erano quelle ufficiali. Un’operazione che costava meno ai produttori, che potevano usufruire delle tariffe sindacali ed evitare di pagare le grandi star del settore.

Alcuni suoi colleghi hanno ceduto alle lusinghe dei reality. Lei è stato mai corteggiato?

No, non me l’hanno mai chiesto. E’ un tipo di televisione che non mi piace, che al contempo regala una visibilità incredibile. Se me lo proponessero mi porrei dei dubbi, ma dopo un lungo dibattito con me stesso credo che rifiuterei.

Attualmente in cosa è impegnato?

Sabato 24 febbraio è andata in scena la replica de L’uomo dal fiore in bocca di Pirandello. Mi sono esibito al teatro Piccolo di Battipaglia, un luogo minuscolo di appena quaranta posti. Ero ad un metro e mezzo dalla prima fila di spettatori, praticamente ero in braccio a loro. Una sensazione splendida. Inoltre, interpreterò Freud nello spettacolo Freud e Karenina, assieme a Giuliana Meli. Raccontiamo una seduta psicanalitica della paziente Anna Karenina nello studio del dottor Sigmund Freud.