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13 luglio 1985

E così domani ritorna quel sogno. Un pomeriggio di luglio, un sabato assolato, l’esame di terza media appena sostenuto. Le partite di basket nel campo della parrocchia sotto casa, gli amici, la passione acerba per la musica (una New Wave ormai imborghesitasi in gruppi come i Duran Duran, gli Spandau Ballett o gli Wham!), la

1 Luglio 2005 15:40
Il Tubo Canonico - di Nick

E così domani ritorna quel sogno.

Un pomeriggio di luglio, un sabato assolato, l’esame di terza media appena sostenuto. Le partite di basket nel campo della parrocchia sotto casa, gli amici, la passione acerba per la musica (una New Wave ormai imborghesitasi in gruppi come i Duran Duran, gli Spandau Ballett o gli Wham!), la percezione che quella diretta da Wembley – trasmessa sulla “terza rete rai” – sarebbe stata lunga e (si diceva) memorabile.
Avevo quattordici anni, poco tempo a disposizione da dedicare al rock e molto ai “giochi elettronici” (così si chiamavano i primi videogames) o alla spiaggia, un videoregistratore SABA e l’incoscienza di lasciarlo spento, quel giorno.

Me ne sono pentito amaramente e lungamente per circa diciannove anni, dopo. Una rivelazione tardiva: la passione per la musica leggera scoppiata a 17 anni, un basso elettrico e tante leggende sorte attorno a quel concerto. Aver potuto dire ai miei amichetti: “io l’ho visto” (poco importava che avessi registrato solo la parte notturna per gustarmi l’esibizione – pessima – dei Duran: involontariamente avevo permesso ai miei genitori di assistere al memorabile duetto fra Tina e Mick, ormai alle prime luci dell’alba).
“Dopo” è stata la ricerca spasmodica nei mercatini, sul web e nelle aste di un DVD, un VHS, un CD, un vinile… qualsiasi cosa che testimoniasse quel pezzo di storia che mi aveva solo sfiorato. E finalmente la pubblicazione ufficiale, una memoria digitale perfetta e immutabile, senza però quel caldo dell’estate 1985, i miei quattordici anni di bonaria ignoranza, le stecche dei Duran né il microfono muto di uno stupefatto McCartney, un silenzio sostenuto da “Let it Be” cantata in coro da tutto il pianeta, l’allora incomprensibile pelle d’oca di mio padre.
Poco importava delle cifre (astronomiche, ripensandoci oggi) che donammo, la mia famiglia, i parenti e tutti i nostri amici incollati al televisore, in quell’afoso sabato di luglio nel quale l’Unione Sovietica era così vicina e simile a noi. La magia di un sogno ci aveva scosso; la televisione e la musica diventavano assieme, di colpo, uno strumento per insinuarsi con prepotente emozione nella coscienza collettiva. Bob Geldof aveva, ha tuttora, ragione. Lasciamo da parte la politica e cominciamo a ragionare col cuore.

Svegliamoci tutti: domani il sogno di LiveAID, anzi LiveEight , torna a rivivere.

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