Home Io e la mia ossessione, il reparto psichiatrico di Real Time è ormai al gran completo

Io e la mia ossessione, il reparto psichiatrico di Real Time è ormai al gran completo

Più che ‘strani comportamenti’, in Io e la mia ossessione sfilano casi da In Treatment. O meglio da TSO…

pubblicato 22 Aprile 2013 aggiornato 3 Settembre 2020 19:03

Io e la mia ossessione è l’ultima ‘perla’ importata dagli Usa e inserita nel palinsesto di Real Time, che ieri, domenica 22 aprile, ne ha trasmesso le prime due puntate, rigorosamente dalle 23.05. Un orario che aiuta a ‘qualificare’ il prodotto, consigliandone la visione a un pubblico adulto (fatte salvo repliche nel daytime) e a chi non si sconvolge più davanti a nulla. O quasi.

Real Time ci ha progressivamente abituato a storie di ‘ordinario’ disordine mentale, dai comportamenti maniacali di Tutti Pazzi per la spesa (ancora razionalmente gestibili ammantandoli di alibi socio-economici)  all’approfondimento di un disturbo particolare come per Sepolti in casa (e già la versione ‘animali’ arrivata dopo apre scenari a dir poco inquietanti) per arrivare a Collezionisti estremi e Malati di risparmio. Già in queste ultime due produzioni si sentiva l’esigenza di un reparto di neuropsichiatria a portata di mano, ma finora, quantomeno, le serie trasmesse (tutte made in TLC) hanno affrontato un solo disturbo alla volta, esplorato nelle sue varianti e nei suoi diversi stadi. Con Sepolti in casa, poi, si intravedeva l’uscita dal tunnel psicotico grazie a un intervento qualificato e un happy ending rassicurante.

Con Io e mia ossessione si va oltre: seguire la storia del 37enne Davecat che ci racconta quanto sia bello e soddisfacente il suo matrimonio con una bambola di silicone (“Sono felice, perché dovrei rinunciarci”) e osservare Rachel che si massacra la pelle, procurandosi ferite per potersi poi strappare le croste (“Quando provo dolore capisco che l’ho fatto bene…”) diventa a tratti indigeribile. Trattare un disturbo come un comportamento eccentrico o strano sa di irrispettoso.

Sono ormai quattro le stagioni realizzate negli Usa di ‘My strange addiction‘, e quello ‘strange‘ nel titolo dice molto. 28 puntate in tutto, oltre 50 storie di persone che mangiano carta igienica, sabbia, detersivi, urina, che sniffano benzina, leccano gatti, mangiano cibo per animali, imbottiture di cuscini, hanno fatto fuori le ceneri del marito defunto, fanno sesso con la propria auto, giusto per citare qualche esempio. In pratica sullo schermo passano soggetti affetti da schizofrenia, tricotillomania, oggettofilia, bulimia,  Alzheimer, forme di dipendenza ossessivo-compulsiva che assumono il profilo di vere e proprie psicosi, non semplicemente di ‘insoliti’ disordini comportamentali. Con Io e la mia ossessione si è definitivamente superato il limite della ‘stranezza’ andando nella malattia, che resta però un pretesto narrativo, sia pure con la consapevole (per quanto possibile, a seconda dei casi) partecipazione del protagonista.

“Team di esperti e psicologi analizzeranno le cause dei problemi ossessivi che affliggono i protagonisti: attraverso le loro rivelazioni a parenti e amici sulla natura dei disturbi e le cure degli esperti, capiremo le cause psicologiche alla base delle loro azioni”

si legge nella presentazione del programma; ma l’intervento medico si limita a pochi istanti in cui l’esperto di turno dà qualche semplice input sul tipo di disturbo manifestato dal ‘protagonista’ della storia (non dal paziente, ché non è in terapia). E così, mentre Davecat esce con la sua amica del cuore per comprare vestiti nuovi per la moglie (di plastica), preoccupandosi di rispettare i gusti della sua compagna, il medico ci spiega che il ragazzo è figlio unico, che è sempre stato un tipo taciturno, che vuole i propri spazi, che ha giocato con le bambole fin da quando era piccolo e che la bambola lo rassicura dalle ‘invasioni’ esterne. Una semplificazione che oserei definire ‘criminale’ e che non basta a limitare il disagio di trovarsi a seguire le vicende di un ‘malato’, che necessiterebbe di strutture adeguate e di un percorso di recupero, non di una telecamera o di un breve intervento ‘medico’ a fine puntata. In qualche caso c’è stato anche uno spin-off su “come è andata a finire”: nel caso di Davecat è arrivata una seconda bambola…

Insomma, il contesto medico è irrilevante (così come è ridicola l’avvertenza iniziale sul genere “Non fatelo a casa, è pericoloso”) e predomina il baraccone applicato a un ampio ventaglio di disturbi psichiatrici. Ormai il padiglione neuro di Real Time ci sembra completo, abbiamo ogni genere di disturbo. Mancano i violenti, i suicidi e poco altro, ma sono convinta che ci si può arrivare.

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