Il clan dei camorristi: tra lentezza e dialetto la fiction rischia di non decollare
Il clan dei camorristi parte lentamente: la storia merita di essere vista, ma c’è troppo spazio riservato alle azioni criminali (ed al dialetto), e poco a quelle per combatterle
Di polemiche, “Il clan dei camorristi”, se ne è già prese molte prima ancora di andare in onda. La più frequente è quella per cui un’altra fiction sulla malavita organizzata non era richiesta, e che la tv italiana potrebbe raccontare qualcosa di diverso e, magari, storie più positive.
Ma la storia d’Italia, lo sappiamo, ha avuto (ed ha) a che fare anche con la mafia e la camorra. Un racconto che permetta al pubblico di conoscerne le origini potrebbe aiutare a conoscere meglio il fenomeno e, magari, ad averne meno paura. La denuncia sociale, quindi, è al primo posto della fiction di Canale 5.
Un obiettivo encomiabile, quello di Taodue, che ormai domina per quanto riguarda la produzione di film-tv e serie dedicate alla lotta al crimine da parte della giustizia. Un marchio di fabbrica che però potrebbe essere dato per scontato: per quanto curato in regia, fotografia e cast (un bel colpo riportare in tv Stefano Accorsi, la cui nemesi Giuseppe Zeno riesce a tenergli testa), “Il clan dei camorristi” fatica a decollare.
Il clan dei camorristi
Non è la storia il problema: lo scontro con la realtà della Campania ai tempi del terremoto da parte di un magistrato del nord, deciso a mettere le cose a posto (o almeno a provarci), è il vero motore del racconto, sebbene la fiction fin dal titolo metta in primo piano le azioni della malavita. E’ proprio in questa scelta di privilegiare l’aspetto più criminale della storia, con tanto di sparatorie e sangue, che la fiction perde efficacia.
Gli autori, quasi tutti provenienti da “Romanzo Criminale”, forse hanno voluto provare a ricreare quel contesto. Peccato, però, che se la banda della Magliana era unica protagonista della serie tv e finiva con l’autodistruggersi, i camorristi della fiction di Canale 5 svolgono, nella loro costante presenza, un ruolo che fa quasi dimenticare la denuncia sociale sopra citata.
La prima puntata, più che altro, sembra voler porre le basi di una storia più ampia. Sarà così, ma la lentezza con cui sono stati introdotti i fatti potrebbe portare all’effetto contrario di quello sperato, con l’allontanamento del pubblico più giovane. Otto episodi non saranno troppi per raccontare tutta la vicenda senza cadere in lungaggini (“Il capo dei capi” ne aveva sei)?
Nell’attesa di capire che pieghe prenderà il racconto, si spera che almeno i dialoghi tengano conto anche del pubblico del Nord Italia: capiamo la necessità di rendere i fatti i più aderenti possibile ai luoghi in cui si svolgono, ma l’eccessivo uso del dialetto (l’ “aggiu parlato troppo napulità” che sentiamo da settimane nei promo è solo la cima di una montagna di citazioni di questo genere) ha reso alcune parti di questa puntata difficili da comprendere.
Insomma: se la forma nella media delle produzioni Taodue, è il contenuto che lascia un po’ delusi. “Il clan dei camorristi” si poggia su basi consolidate ma appartenenti al passato. Un racconto alla vecchia maniera, per una produzione che punta all’attualità e che per questo meriterebbe di trattenere l’attenzione degli spettatori, potrebbe essere la zavorra che impedirà alla serie di prendere il volo nella narrazione.
