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Hollywood su Netflix, la recensione: se Ryan Murphy non smette di sognare

La recensione in anteprima Netflix di Hollywood, la miniserie di Ryan Murphy che ci porta nello star system del Secondo Dopoguerra, dove un gruppo di giovani sogna il successo

pubblicato 30 Aprile 2020 aggiornato 30 Agosto 2020 02:36

“Everybody comes to Hollywood”, cantava Madonna qualche anno fa: tutti vanno ad Hollywood ed, aggiunge Ryan Murphy, per sopravvivere devono adattarsi. La sua nuova miniserie in otto episodi targata Netflix, Hollywood appunto, sarà disponibile da domani, venerdì 1° maggio 2020: ed a giudicare da quello che abbiamo visto, possiamo dire che solo Murphy poteva raccontare Tinseltown riflettendo il passato con il presente, e trovando anche il tempo di strappare qualche sorriso.

C’era una volta Hollywood

La Hollywood che Murphy, insieme a Ian Brennan, hanno voluto costruire per il pubblico di Netflix non è quella che conosciamo oggi, né quella degli anni Ottanta o Novanta. Murphy va ancora più indietro nel tempo, ed arriva fino al Secondo Dopoguerra: gli studios lavorano freneticamente su tantissimi progetti, a cui dovranno il loro successo numerosi registi e soprattutto attori ed attrici.

E’ il periodo, insomma, dell’età d’oro di Hollywood, e sono tanti i giovani che arrivano a Los Angeles in cerca del loro posto al sole: giovani uomini e donne che, in attesa della loro grande occasione, si presentano in massa ogni mattina davanti ai cancelli degli studi di produzione cercando di farsi notare ed ottenere anche un piccolo ruolo da comparsa che potrebbe aprire loro la strada del successo.

E’ in questo contesto che conosciamo il protagonista dello show, Jack Castello (David Corenswet): tornato dalla guerra e consapevole della propria bellezza, Jack decide di trasferirsi insieme alla moglie per tentare di raggiungere la popolarità.

Ma le bollette da pagare sono tante, e quando la moglie resta incinta, a Jack non resta che accettare l’apparentemente ingenua proposta di Ernie (Dylan McDermott) di lavorare nella sua pompa di benzina. Una proposta che, però, nasconde dell’altro.

La serie si concentra anche su altri personaggi e sulle loro aspirazioni: dal regista esordiente Raimond Ainsley (Darren Criss), il cui sogno è portare al cinema il primo film con protagonista un’attrice asiatica, Anna May Wing (Michelle Krusiec); allo sceneggiatore afroamericano Archie Coleman (Jeremy Pope), con il sogno di infrangere i pregiudizi e riuscire a far produrre una sua storia, fino all’attrice Camille Washington (Laura Harrier), costretta ad accettare ruoli frutto anch’essi degli stereotipi.

Ma è Hollywood, ed ognuno di loro non ha intenzione di rinunciare ai propri sogni, neanche quando si scontrano con la realtà e con chi, quegli studi, li conosce molto meglio di loro, come Avis Amberg (Patti LuPone), ex diva del cinema muto, o l’agente Henry Wilson (Jim Parsons), artefice del successo di colui che diventerà poi celebre come Rock Hudson (Jake Picking).

Quel gusto di Murphy per i tempi che furono

Non è la prima volta che Murphy si cimenta con il racconto di epoche differenti dalla nostra. Lo ha già fatto con alcune stagioni di American Horror Story e con American Crime Story e con la prima di Feud. In tutti i casi, Murphy ha evidenziato un gusto tutto suo per ciò che appartiene ad altre epoche.

Succede anche in Hollywood, dove Murphy e Brennan dimostrano un grande rispetto per quell’epoca così affascinante, tanto da essere già stata ampiamente raccontata da tv e cinema, e così lontana. La Hollywood del Secondo Dopoguerra non è chiaramente la Hollywood di oggi, e questa è la sfida che Murphy cercava: raccontare il presente dello star system tramite il suo passato.

Uno sforzo che è sia produttivo (ormai Murphy è uno tra i pochi eletti nel mondo dello spettacolo a potersi permettere certe location) ma anche narrativo: i lavori dell’autore di Glee e Nip/Tuck non vogliono mai essere fini a loro stessi, cercano sempre di andare oltre il semplice esercizio di stile -anche se non sempre riesce bene: vedasi The Politician– e di trovare parallelismi tra il mondo creato per il piccolo schermo e quello che viviamo tutti i giorni.

Una scalata che è tutta da vedere

Rispetto al sopra citato The Politician, Hollywood si dirige verso un pubblico meno pop, in cerca di un gusto differente, più raffinato ma non esclusivo. Se l’ambientazione passata potrebbe allontanare i più giovani, l’idea dei due autori è quella, come già detto, di raccontare il mondo di oggi con i costumi di allora.

Murphy, così, butta dentro le storyline tematiche fortemente attuali: immancabile il riferimento al caso Weinstein (seppur da un’ottica tutta diversa), ma anche al razzismo, l’omofobia e la rappresentazione di un intero mondo, come quello dello spettacolo, in cui non tutto (o forse nulla) è come sembra.

Ma, alla fine, prevale sempre il sogno: Murphy riprende parte di quella ingenuità che abbiamo visto in Glee e lascia che i protagonisti vivano delle loro ambizioni. Fin dalla suggestiva sigla, in cui gli stessi personaggi, aiutandosi a vicenda, scalano la iconica scritta che dal Monte Lee osserva l’intero quartiere dei sogni per eccellenza: sudano, si spaventano, non si arrendono, ed alla fine possono godersi l’ambito panorama.

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