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I Raccomandati della Tv

Dopo aver parlato della puntata di Matrix sui raccomandati e aver pubblicato la lettera di una lettrice sui raccomandati alle poste, recuperiamo, con il permesso dell’autore, un lungo spunto di riflessione/racconto di Marcus Daly sui raccomandati in tv: a partire dalla propria esperienza personale, questo blogger-addetto ai lavori ci apre un’inquietante scenario di raccomandazioni.I Raccomandati

30 Settembre 2005 00:17

Dopo aver parlato della puntata di Matrix sui raccomandati e aver pubblicato la lettera di una lettrice sui raccomandati alle poste, recuperiamo, con il permesso dell’autore, un lungo spunto di riflessione/racconto di Marcus Daly sui raccomandati in tv: a partire dalla propria esperienza personale, questo blogger-addetto ai lavori ci apre un’inquietante scenario di raccomandazioni.

I Raccomandati
No, non è una recensione del brutto e insulso programma condotto da Carlo Conti. Questa è la storia di un baldo giovane alle sue prime esperienze lavorative e del suo incontro con Mamma Rai, e il suo mondo fatto di lustrini e paillettes, nani e ballerine, e soprattutto, raccomandati.

Spinto dalla visione del programma di Mentana, Matrix, dedicato, l’altro ieri, alla piaga dei raccomandati che infesta l’Italia in tutti i gangli, soprattutto quelli pubblici, delle sue aziende, con Pier Luigi Celli come ospite che raccontava la sua esperienza di Direttore del Personale prima, e Direttore Generale Rai dopo, anch’io ho deciso di dare il mio modesto contributo a illuminare l’oggetto della conoscenza, da una prospettiva molto più bassa, quella del giovane stagista, assunto poi come consulente e poi ancora a tempo determinato, che ha passato cinque anni della sua vita alla RAI di Roma.

Premetto che io non sono raccomandato (mi si obietterà che, anche se lo fossi, non lo ammetterei) ma vi assicuro che non ho mai ricevuto nessuna raccomandazione, in quanto totalmente estraneo agli ambienti politici o economici che me ne avrebbero potuto fornire una, e comunque, se fossi stato raccomandato, certamente non avrei lavorato cinque anni con la qualifica e i compiti che ho svolto in RAI.
Ma andiamo con ordine (in questo racconto ometterò nomi e dettagli per evitare problemi, ma tutto quello che racconterò è vero e frutto di mia esperienza diretta): la mia avventura RAI comincia con uno stage presso una direzione che non si occupava direttamente dei programmi, ma svolgeva un servizio di consulenza, ricerca e informazione. Ci ero arrivato grazie all’Università. Un seminario tenuto dal Responsabile di quella Direzione, seguito da sette otto persone (quando Scienze della Comunicazione era a numero chiuso, un’oasi di serenità, studio proficuo e opportunità, mica la bolgia di adesso) che si era concluso con l’invito a mandare il proprio curriculum, perché ci sarebbe stata la possibilità di svolgere degli stages. Due di noi furono presi. Ero entusiasta, la mia prima opportunità di entrare in contatto col mondo del lavoro, per di più in un’azienda di primo piano per il tipo di studi che stavo svolgendo.
Lo stage, della durata di tre mesi, si trasformò in un contratto di nove come consulente part-time: una formula tale solo sulla carta, perché in realtà al lavoro ci andavo tutti i giorni per otto/dieci ore come un qualunque impiegato assunto a tempo indeterminato, con la sola trascurabile differenza che a me pagavano la metà dello stipendio, senza straordinari, ferie retribuite e contributi pensionistici. Ma andava bene lo stesso: in fondo ero ancora uno studente univesitario di 22 anni, e a me bastava anche solo quella opportunità. Inutile dire che il lavoro, dopo due tre mesi passati ad imparare tutto quello che potevo, era di una noia mortale. Così, dopo l’iniziale entusiasmo e il tempo impiegato ad imparare, il mio interesse si spostò sui colleghi che occupavano le restanti scrivanie della mia stanza.

Ce n’era una, in particolare, arrivata nell’ufficio da poco, sui trentacinque anni, che mi colpì già dal primo giorno. Se ne stava di fronte al PC, interdetta. Tentava di prendere il mouse e lo spostava a scatti, entrava nel panico anche solo ad accenderlo, il PC. Non lo sapeva usare. Non sapeva neanche cosa fosse un mouse. Accendeva e spegneva il computer direttamente dal tasto dell’alimentazione. Me ne accorsi quando mi chiese aiuto: non riusciva a gestire quella freccetta che gli scivolava veloce sul monitor.
Ero stupefatto. Una donna di trentacinque anni, assunta a tempo indeterminato in RAI come Programmista/regista, che non aveva mai usato un computer. Scoprii ben presto che era nipote di un dirigente RAI. RACCOMANDATA

Alla scrivania di fianco, ogni tanto si sedeva un’altra donna, di qualche anno più anziana, che non veniva al lavoro tutti i giorni, ma quando c’era, non solo non faceva assolutamente nulla di paragonabile all’attività professionale che si svolgeva in quell’ufficio, ma disturbava tutta la stanza con le sue continue telefonate personali. Pensavo, visto la sua irregolare presenza, che fosse una consulente. Invece anche lei era assunta come Programmista a tempo indeterminato (e quindi, in teoria, avrebbe dovuto venire al lavoro tutti i giorni). Invece, adottava una tecnica subdola e truffaldina: siccome abitava non lontano dalla sede di lavoro, veniva a strisciare il badge di presenza e poi se ne tornava a casa. Alcuni giorni, mossa forse dal senso di colpa, o, più verosimilmente, per scroccare telefonate, si decideva a farsi vedere in ufficio. Dalle sue conversazioni telefoniche si arguiva che aveva un sacco di soldi. Trattava l’acquisto di una barca, abitava in un attico, si organizzava settimane bianche e vacanze esotiche. Era la moglie di un parlamentare. RACCOMANDATA

All’altra scrivania, la mia preferita (non in senso ironico): una madre di famiglia simpatica e gran lavoratrice. Senza falsa modestia, quella stanza la mandavamo avanti io e lei.

Tra stage e contratti passai in quella Direzione due anni, fino al giorno in cui, sulla bacheca dell’atrio del mio ufficio, comparve il Bando di concorso per aiuto-registi. Colsi al volo l’occasione di poter fare qualcosa di più interessante, lavorare direttamente in produzione. Con grande sacrificio mi preparai per il concorso mentre lavoravo e studiavo all’Università.
La prova scritta (900 partecipanti per 50 posti) si svolse in un clima di totale confusione. Non a caso fu annullata: si scoprì che molti avevano già il test con le riposte pronte. Fu rifatto lo scritto, poi l’orale, in due fasi, individuale e collettiva, poi un’ultimo colloquio. Ce l’avevo fatta. Un corso di formazione di tre mesi e via. Ero aiuto-regista assunto a tempo determinato. Ho lavorato in varie produzioni che qui non citerò. Ma anche nella mia nuova attività professionale c’erano i raccomandati, eccome.
La maggioranza di loro era programmista/regista: si tratta di una qualifica professionale presente solo in RAI, un calderone dove c’è di tutto, una sorta di termine ombrello di cui fanno parte persone senza specifiche competenze professionali, che in teoria dovrebbero essere responsabili dei servizi filmati in tutte le loro fasi di realizzazione, dalle riprese al montaggio.
Della varia umanità di programmisti con cui mi sono ritrovato a lavorare c’era gente:
1. Che non conosceva nemmeno la differenza tra un VHS e un BETACAM (il formato professionale di ripresa e registrazione che si usa in TV) RACCOMANDATI
2. Che per un servizio di due minuti era capace di girare ore di materiale senza nemmeno scalettarlo (un incubo per me e il montatore) RACCOMANDATI
3. Che ci propinava materiale scadentissimo. Riprese mosse, audio inascoltabile, stacchi non montabili. RACCOMANDATI

Un giorno, un programmista me lo disse senza problemi che era raccomandato. Ora fa il regista di programmi che vanno in onda in prima serata.
Oltre ai raccomandati, un’altra piaga della RAI è costituita dai figli di… L’abitudine di prendere il posto del proprio genitore è stata addirittura istituzionalizzata dalla RAI (mediante una procedura ai limiti della legalità, non a caso nel mirino dei sindacati da anni, ma che fno adesso è stata bellamente applicata). In pratica, il sistema funziona così: quando il genitore va in pensione, può scegliere una ricca liquidazione, oppure che, al posto suo, venga assunto il figlio, che dunque, nei primi anni di lavoro, viene pagato con la liquidazione del padre o della madre, letteralmente.
Grazie a questa pratica la RAI è piena di figli di ex dipendenti. Provate a leggere i titoli di coda dei vari programmi: campeggiano sempre gli stessi cognomi. Dalle mie parti questo si chiama nepotismo. Vero e proprio nepotismo istituzionalizzato.

Questa è solo la punta dell’iceberg di un carrozzone dove ho veramente visto di tutto, e dove la piaga della raccomandazione è solo uno degli aspetti dell’inefficienza e delo spreco che affliggono la nostra televisione pubblica.
Certo, la mia testimonianza dimostra che anche persone come me, senza nessun appoggio né parenti o genitori che lavorano nell’ambiente, ce la possono fare. Ma la mia esperienza professionale mi dimostra che i non raccomandati, che dovrebbero essere la regola, in RAI sono in realtà l’eccezione.
Il problema dei Raccomandati è tanto più spinoso in quanto mi sono reso conto che la maggior parte di loro non sa lavorare, oppure fa il minimo indispensabile perché si sente con le spalle coperte.
I colleghi più arroganti, scansafatiche e scrocconi, erano quasi sempre i raccomandati.

Come è finita questa storia è presto detto. Me ne sono andato dalla RAI, alla quale sono legato unicamente come telespettatore. E forse è meglio così. Meglio non scoperchiare quel calderone di cui ho fatto parte per qualche tempo.
Marcus Daly