Home Serie Tv Non ci sono più gli share di una volta. Ma c’è l’autoreferenzialità di Guia Soncini, quella di #ungrandecanile

Non ci sono più gli share di una volta. Ma c’è l’autoreferenzialità di Guia Soncini, quella di #ungrandecanile

Quando una pungente critica televisiva incappa in qualche narcisismo di troppo.

pubblicato 7 Luglio 2012 aggiornato 4 Settembre 2020 03:34

D di Repubblica è sempre una fonte preziosa, quando si vuole analizzare la congiuntura televisiva italiana in chiave comparata con i trend americani. Anche questa volta mi piace citare un’analisi più o meno condivisibile dell’arguta Guia Soncini, che in molti conosceranno come caustica opinion leader di Twitter (in versione social è gentilissima con addetti ai lavori come Gregorio Paolini, Paola Jacobbi e Giancarlo Leone, mentre lancia frecciatine a tutti gli altri).

Titolando “Non ci sono più gli share di una volta”, l’articolista affronta il problema dell’emorragia di ascolti, che a quanto pare non è un problema solo italiano ma interessa anche le reti generaliste americane.

A offrirle lo spunto per la riflessione è la marketta del libro “Top of the Rock, Inside The Rise and Fall of Must See Tv“, scritto da Warren Littlefield, “un signore che stava a capo del settore intrattenimento della Nbc in quegli anni 90 in cui la Nbc produceva roba i cui titoli sono diventati spendibili come sinonimo del concetto stesso di telefilm: E.R., Friends, Will and Grace”.

Poi la Soncini offre più di un esempio, da American Idol che, alla sua prima edizione di successo, aveva pur sempre un quarto degli spettatori di E.R. dei primi anni, terminato con ascolti dimezzati, a Julianna Margulies, che ai tempi di E.R. era abituata a numeri da Superbowl (44%) e ora deve gioire del 13% di The Good Wife.

Così l’articolista parte con la sua illuminante interpretazione, di quelle ‘mai più senza’ (qui trovate l’articolo integrale):

“C’era una volta la tv che si guardava in tv. Era il sabato di Fantastico, il lunedì di E.R., il ‘domani non possiamo vederci: c’è il Festivalbar’. E’ durata decenni, per quanto sembri incredibile. L’era della Must See tv, della tv che non puoi non guardare. (…) Erano gli anni in cui non c’era Youtube, nessuno guardava un programma sul sito della rete, ma si faceva quello che ora si fa con Fiorello, con Sanremo, con Fazio e con Saviano: la visione in diretta. Il programma esiste nel momento in cui va in onda, punto. Perché lì per lì lo commenti con gli amici, il mattino dopo ne chiacchieri in ufficio, e nessuno vuole restare indietro”.

La Soncini, a questo punto, guarda al fenomeno in Italia, ritenendo che da noi sia molto meno allarmante:

“Se un varietà di prima serata su Rai 1 o Canale 5 faceva, mediamente, il 21 per cento di spettatori, in questo secolo fa il 17%. L’emorragia di spettatori dalle reti generaliste non è paragonabile a quella americana, ma il pubblico di base su cui possono contare Rai e Mediaset è comunque ridotto di un terzo rispetto a quindici anni fa. Certo, dipende dalla frammentazione, dal digitale terrestre, da Sky, persino da La7, che è diventata una concorrente quando la si era ormai data per persa, al ventesimo di rilancio di rete. Ci voleva Mentana”.

Ecco, trovo che quest’analisi sia decisamente improbabile poiché troppo livellante. Parlare di media del 21% dei varietà, sino a qualche anno fa, mi sembra ingeneroso se consideriamo il muro del 25% ampiamente superato dall’edizione 2010 di Ti lascio una canzone (ma potremmo aggiungere anche i numeri record degli inossidabili Paperissima e C’è posta per te). Per non parlare di La7, che ha concluso una stagione fallimentare risultando innocua per tutti e con una visibile inflessione degli ascolti dello stesso TgLa7.

Il divario, se c’è stato, c’è stato anche da noi (con numeri spesso talmente crollati da far considerare lo stesso 17% un miraggio). Ma va anche detto che i grandi marchi dell’intrattenimento sono quelli che più hanno retto all’usura del tempo, a differenza dei titoli seriali americani andati via via a picco. Se si può parlare di emorragia in Italia è soprattutto per varietà senza né capo né coda come quelli “nuovi ma vecchi” testati in Rai, o per adattamenti azzardati come quello di Scherzi a a parte.

La Soncini cita, però, l’esempio virtuoso al sabato sera di Italia’s got talent, come caso che ha intercettato qualche altra categoria rispetto a “vecchi e shampiste”. Questo è il modo in cui liquida l’eccezione al “non ci sono più gli share di una volta”.

C’è un’altra opinione dell’articolista che non condivido. Prima di tutto quando scrive che “è nato un nuovo genere, quello delle serie che hanno più copertine che spettatori, più recensioni che abbonati. Come Mad Men”.

Peccato che la serie, il cui ritorno era tanto atteso dal 2010 dopo due anni di stop, non se la passi affatto male: il primo episodio della quinta stagione su AMC ha ottenuto 3,5 milioni di spettatori medi, accrescendo i suoi spettatori del 21% rispetto al primo episodio della stagione precedente. Ricordiamo, alla Soncini stessa, che stiamo parlando di un Tv via cavo, quindi di risultati assolutamente lusinghieri. In Italia sarà di nicchia, ma in America lo adorano ed è un prodotto importante per gli investitori.

La Soncini, peraltro, è la stessa che considerava la qualità di Downton Abbey, gioellino seriale inglese, frutto di una buona stampa che l’ha sopravvalutato. Addirittura per lei i suoi intrighi non sono molto diversi da quelli di fiction italiane come L’onore e il rispetto, verso cui si nutre, invece, del pregiudizio (attenti, quando le si ricorda di premi come gli Emmy dice che sono sopravvalutati anche quelli).

Tant’è, arrivo al punto dell’autoreferenzialità da me denunciato nel titolo. Il punto più inquietante dell’analisi è il seguente:

“In Italia la tv ha successo e senso solo se è orrenda. E infatti il successo del 2012 è stato Una grande famiglia. Se un’accolita di attori romani che chiudevano vocali a casaccio fingendo di essere una dinastia di mobilieri in riva a un lago lombardo ha fatto numeri da anni Novanta è stato per il contributo allo share di chi la guardava senza saperne il vero titolo, abituata com’era a chiamare la serie Un grande canile. Non ci resta che il camp, l’estetica del ridicolo, il postmoderno”.

Salvo qualche citazione letteraria di troppo, sapete cosa trovo assurdo? Una giornalista che denuncia l’autoreferenzialità americana incappando nel peggior errore di mistificata autoreferenzialità. Perché si dà il caso che a coniare l’hashtag #ungrandecanile, puntualmente trending topic su Twitter durante la fiction, sia stata lei, chiedendo anche a Giancarlo Leone, tra il serio e il faceto, una percentuale sugli incassi.

Ora, che quell’hashtag fosse geniale è indubitabile e fa bene all’ego di chiunque ritrovarsi l’argomento più discusso sul social network più trendy. Ma che la Soncini arrivi ad addebitarsi, tra le righe, il successo di una fiction di RaiUno, che nel suo pubblico non annovera sicuramente twittomani, dà da pensare.

Risulta difficile far quadrare le analisi se rasenti il virtuosismo narcisista, una delle più grandi pecche della carta stampata italiana (e non americana).