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I Tamarri? Più onesti di Guendalina star al Grande Fratello

La prima puntata di Tamarreide colpisce per fotografia e innovazione del prodotto, ma fa indignare per i contenuti

pubblicato 13 Giugno 2011 aggiornato 5 Settembre 2020 05:43


Provare a giudicare – e forse anche a fare, per chi l’ha scritto in tanti mesi di lavorazione – Tamarreide è come affrontare il primo lancio col paracadute munito di brevetto. L’hai visto fare (all’estero), ma sei consapevole di quanto tu – italiota cresciuto a pane e Don Matteo o al massimo Amiche Mie – stia compiendo un salto nel buio estremo, spregiudicato ma a suo modo liberatorio. L’inizio di una nuova era, auspicabilmente quella di una tv che smetta di farti la morale, di un intrattenimento che riparta dalla realtà senza stilemi paludati o forzati realismi.

Si tratta di serializzare uno stereotipo sociale, il tamarro, e di farne l’headline di un racconto televisivo che rifugga dagli stereotipi televisivi. Mica roba da poco. Succede, dunque, che l’esperimento “fisiologico” qui intrapreso produca due reazioni contrastanti. Da una parte lo sdegno borghese, l’avversione verso dei ragazzacci portati “a che titolo” in televisione, l’indignazione del popolo bene verso il trucido gladiatore esposto nell’arena che cela un certo sadico compiacimento.

Quelli che si muovono sulla scena, più che caratteri, sono corpi ansimanti, decerebrati, che parlano con la loro carnalità (quasi reincarnando personaggi di Spartacus, specie i maschioni). E il claim “Noi siamo tamarri. E tu?’ rafforza il loro senso di appartenenza contro le convenzioni sociali, che li ha resi più fortemente identificabili dei “normali”.

Tamarreide foto prima puntata
Tamarreide foto prima puntata
Tamarreide foto prima puntata
Tamarreide foto prima puntata
Tamarreide foto prima puntata

D’altro canto c’è il forte impatto estetico della visione, la sensazione di assistere a un documento iconografico che non ha bisogno di essere “ascoltato”. Il sottotitolo, che pur nasce per sopperire alle carenze linguistiche dei tamarri, carica di autenticità “da presa diretta” le dinamiche relazionali tra gli esponenti della stessa specie. Peccato solo che i sottotitolatori si siano identificati talmente tanto negli orrori grammaticali da riprodurli autenticamente: vedere in sovrimpressione po’ e fa con l’accento fa temere che il degrado culturale abbia contagiato tutti i livelli.

Detto questo, Tamarreide è la solita “invidia del pene” tutta italiana? Non sembra: rispetto a Jersey Shore si è notata una totale assenza di pregiudizio ridanciano e approccio censorio alla materia trattata (in quel caso i vituperati “guidos”), come è mancato quel processo di santificazione che ha trasformato la tamarra Guendalina nella diva del Grande Fratello.

E’ come scattare una fotografia che viene bene anche se nessuno si è messo in posa. Di qui l’inutilità della guida narrante di Fiammetta Cicogna, il cui peso specifico in Tamarreide è quello di una borsetta vuota. Con la differenza che gli accessori non ti ammorbano con la loro r moscia tutto il tempo.

Bilancio della prima puntata, allora? Dopo le schede iniziali, una sorta di extended version degli rvm da reality mainstream, si è entrati nel vivo calando i tamarri nei loro habitat naturali: la discoteca, la borgata (ancestrali le lezioni del coatto Spartaco) e, soprattutto, il promiscuo camper. Li abbiamo visti bruciare le tappe della sessualità come della rissosità, con un Claudio che denuncia sin da subito il proprio incontrastato leaderismo e Cristiana che si cuce su misura l’abito della donna del boss.

I tatuaggi in bella mostra e l’ostentata virilità dei protagonisti maschili, con qualche retrogusto omofobo che non piacerà alla comunità queer, rischiano di fomentare un maschilismo intollerante che sembrava sparito dalla tv, mentre le donne appaiono per lo più svaccate e poco emancipate. Sociologicamente questo potrebbe diventare un handicap, per un programma che vuole essere tutto tranne che una didascalica istigazione al bullismo.

Insomma, cos’è Tamarreide? Elogio dell’ignoranza di chi lo “anima” o trionfo, dietro la disgustosa materia trattata, della professionalità della produttrice Cristiana Farina e il regista Alberto D’Onofrio? Dietro un’apparente trashata da Italia1 ci sono persone con un curriculum con le palle sotto, a cui il budget e il tempo storico danno dei ragazzi che sperano di essere stati “circoncisi” anziché concisi. Perciò, che questo post sia un elogio o una stroncatura, chi lo sa.