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LA RAI STAVA IN CIMA: oggi dov’è? dove sarà?

Quale futuro per la RAI?

pubblicato 9 Maggio 2011 aggiornato 5 Settembre 2020 06:37

Immaginate una piccola spiaggia dell’Argentario. In lontananza si vede una piccola e tornita montagna. Sopra la montagna, un’antenna tv nella luce tra mezzogiorno e le due.
Sono seduto davanti allo spettacolo. Davanti a me, alla presenza di due signore, un signore ancora giovane e già in pensione. L’occasione, cercata, ha una caratteristica di casualità. Nel senso che non avrei immaginato dove ci avrebbe portato la nostra conversazione.
La luce del sole è forte e il vento teso. Il pranzo si è inoltrato, il vermentino è meno buono del nome del celebrato vino d’origine sarda, e quindi siamo molto sobri. L’antenna splende. Il signore alza la mano e lo mostra, come se fosse cosa sua.

Chi è questo signore che parla con tanta sicurezza di quello scheletro che regge il corpo massiccio della televisione? E’ un tecnico, anzi era un tecnico della Rai che ha cominciato indietro nel tempo quando la Rai semimava ancora le sue torri nel territorio per far giungere le sue prime immagini nelle zone più lontane e “coperte” (in quanto difficili da raggiungere).
Forse si commuove, non so.
Il sole mi acceca o non voglio vedere. Il signor tecnico, che chiamerò Au (un intero alfabeto), ricorda di quando da ragazzo viveva alle radici di quell’antenna come i faristi dei fari che nella notte illuminano i naviganti. Era solo soletto per giorni e notte. E ci guadagnò nel respirare aria buona e nel cibarsi del pesce semplice della laguna non ancora contaminata (anche di case malvage).

Bei tempi? Tempi belli e bui di sonni in solitudine, solitudine di voci, solitudine di massmedia, solitudine di televisione, quella gran massa di canali che ci stritola, o rischia di stritolarci, come le spire dei serpenti boa che ci invitano a mangiare la mela del frutto proibito, quello delle televisioni che imbrogliano occhi e cervello, cuore e anima.

Poi il racconto declina. Au scende dal picco e riafferra i fili delle esperienze fatte nelle riprese in diretta, negli studi, negli uffici del potere e nei paesi o nei quartieri delle moltitudini di utenti (spettatori in cerca di emozioni, idee, passioni) dislocati come una larga manciata di semi lungo la penisola. Un racconto diretto, concreto, discreto, sul filo di una memoria che non vacilla. Una memoria tessuta di orgoglio.
Au mi fa pensare alla parola orgoglio. Sì’, c’era orgoglio nei vecchi o meno vecchi tecnici e lavoratori della Rai, i quali faticavano ma avevano il piacere (ripeto: piacere) di operare e vivere della più grande industria culturale italiana di cui si poteva e si può, un pò meno, parlare ricordando una lunga, appassionante avventura.
Arriva il tramonto e Au- che cominciò col cinema e si “convertì” alla televisione- ha scritto senza saperlo un piccolo grande romanzo in cui ho riconosciuto il tono, la commozione, il calore di una partecipazione di centinaia e cantinaia di tecnici e lavoratori a molti livelli della Rai.
Per carità, alcuna sterile nostalgia, ma il riconoscere di aver imparato fra cavi e obiettivi una vita intera, e di averla regalata agli utenti (spettatori in cerca di emozioni, idee, passioni).
Fine del racconto che, per forza di blog, devo tenere corto.

Ma, ecco l’epilogo che mi è rimasto dentro, domande:
– la Rai, senza guardarsi indietro come la regina cattiva nello specchio delle sue brame, può far scorrere dalle antenne, vecchie e nuove, dalle macchine nuove, dai talenti vecchi e nuovi dei suoi tecnici, realizzatori, autori, un sentimento che nasca dall’azione per i compiti che oggi può ancora svolgere?
– la Rai può recuperare fiducia nel suo pubblico, senso di appartenenza, entusiasmi in chi la fa?
– la Rai può rilanciare una televisione dal volto umano?
Non so. L’appuntamento è sotto il monte dell’Argentario a dopo, a quando i sospiri scenderanno a valle dalle antenne per dirci che sì, non bisogna disperare e che il video si può riaccendere dopo essere stato (quasi) spento o distratto da sirene ingannatrici. Quanto bisognerà attendere ?
La speranza è l’ultima a morire, direbbe una mia amica specialista nel ricordo dei proverbi.
Italo Moscati

Rai 1