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TV: una signora della cultura come mestiere, Francesca Sanvitale

Questo inverno bara. Una bara sull’altra. Altro che six feet under. Qui la serie si fa seria. Me ne dispiaccio. Mi spegne il sorriso. Ma per poco. Ed ecco che un’altra signora dopo Tullia Zevi, che abbiamo ricordato, se n’è andata a 83 anni. Si chiamava, anzi si chiama (non dimenticherò mai lei come non

pubblicato 10 Febbraio 2011 aggiornato 5 Settembre 2020 08:50

Questo inverno bara. Una bara sull’altra. Altro che six feet under. Qui la serie si fa seria. Me ne dispiaccio. Mi spegne il sorriso. Ma per poco. Ed ecco che un’altra signora dopo Tullia Zevi, che abbiamo ricordato, se n’è andata a 83 anni. Si chiamava, anzi si chiama (non dimenticherò mai lei come non dimentico Tullia) Francesca Sanvitale.

Come ha scritto sul Corriere in un suo ricordo il grande Cesare Segre, Francesca viveva la cultura come mestiere. Ossia, era nota come scrittrice di importanti romanzi: “Il cuore borghese” (1972), “Madre e figlia” (1980), “La realtà è un dono” (1987) e altri fino a “L’ultima casa prima del bosco” (2003). Ma merita una segnalazione non banale il suo lavoro in Rai per ben ventisette anni, lavoro di cui non resta traccia nelle Enciclopedie della televisione, peccato Aldo Grasso. E di cui sono stato testimone quando ci frequentevamo fuori e dentro la industria culturale più potente d’Italia, e che oggi purtroppo sembra avviata a uno scoraggiante declino.

Francesca, insieme a Enzo Siciliano, realizzò un magazine culturale che si chiamava “Settimo giorno”, di cui si trova qualche annotazione a pagina 295 della “Storia della televisione italiana”, a cura di Grasso, un risarcimento.
In queste annotazioni si dice che la rubrica aveva la capacità di occuparsi di letteratura, arte, cinema, filosofia riuscendo di frequente “a mostrare un piglio aggressivo e poco convenzionale”. Okey.

La qualità di Francesca, come di altri intellettuali capaci di fare cultura come mestiere, era quella di portare in tv non solo competenza unita a una grazie personale subito evidente; e se ne sente la grave mancanza. Ma era soprattutto quella di contribuire a creare un tessuto, tante trame di efficaci apporti e rapporti con tutti coloro che avevano la fortuna di starle vicino e di rubarne in parte il mestiere, se non la grazia.

Aveva una formula speciale Francesca. Me la rivelò un giorno nel corso di una passeggiata New York, dove eravamo per parlare di Pasolini nei primi anni Ottanta. Non che l’avessi intuita questa formula ma l’avevo rubata e digerita senza accorgermene.
Nella passeggiata il discorso cadde sulla lucentezza dei suoi bianchi capelli. Nico Naldini, cugino di Pasolini, anche lui presente a New York, le chiese come facesse, visto che la sua canizie era opaca come una giornata di nebbia.

Francesca rispose che dopo lo shampoo e l’acqua calda, bisognava una supplementare risciacquatura con acqua gelida. Sia Nico che io incassammo la formula. Per quanto mi riguarda, contando i capelli bianchi nella chioma castana, applicai il consiglio, e mi trovai, e mi trovo ancora bene.

Pensai a quel consiglio e anche adesso devo dire che, ripensando alle lezioni di Francesca (indirette,garbate affettuose), ne avevo ricavato la lezione più decisiva, comparando le parole di chiacchiera alle sue parole di letterattura e di mestiere, succo di eleganza e sapere.
Avevo distillato una riflessione, basandomi su una battuta di Francesca nella famosa passeggiata americana: “…i capelli fioriscono sulla testa”, disse con ironia.

“I capelli fioriscono sulla testa”, ovvero, tradussi per sempre, che il fiore (o il frutto) viene da sotto, dalla testa. La testa che Francesca usava senza parsimonia, pur colta e discreta com’era, e che metteva in “Settimo giorno” e in tutte le altre cose che faceva in Rai.

Dio mio, dov’è, dove sono teste così. Tenute lucide dall’acqua fredda della serenità degli atteggiamenti e dei giudizi, dalla classe dello stile!

Italo Moscati