Home Netflix After Life 2, la recensione in anteprima: Ricky Gervais affronta la semplicità del dolore

After Life 2, la recensione in anteprima: Ricky Gervais affronta la semplicità del dolore

La recensione di After Life 2, la seconda stagione della serie tv di Netflix con Ricky Gervais disponibile sulla piattaforma di streaming on demand dal 24 aprile 2020

pubblicato 23 Aprile 2020 aggiornato 30 Agosto 2020 02:54

Un anno fa, quando After Life debuttò su Netflix, fu una vera e proprio sorpresa: sia perché il tema del lutto e della depressione erano trattati in una chiave umoristica e british inedita ma non per forza offensiva, sia per l’interpretazione di Ricky Gervais, una delle voci più dissacranti dello spettacolo che, per una volta, si metteva a nudo e lasciava che fossero le emozioni a parlare.

Non fa eccezione la seconda stagione, sei nuovi episodi disponibili su Netflix dal 24 aprile 2020. Scritta, diretta e prodotta sempre da Gervais, After Life prosegue nel racconto del “dopo” di Tony (Gervais), giornalista nella fittizia cittadina inglese di Tambury, che cerca di andare avanti dopo la morte dell’amata moglie Lisa (Kerry Godliman) e di trovare nuovi motivi per tornare ad avere il sorriso.

Lo spettacolo della vita (di provincia)

La seconda stagione allarga il suo sguardo, ma non su nuovi personaggi: After Life 2 si concentra su chi già conosciamo, come Matt (Tom Basden), il cognato del protagonista il cui matrimonio è in crisi; Sandy (Mandeep Dhillon), l’ultima arrivata nella redazione in cui lavora Tony, che rischia di perdere l’entusiasmo per il proprio lavoro; l’infermiera Emma (Ashley Jensen), stufa che Tony non si faccia avanti o Pat (Joe Wilkinson), il postino che ronza sempre intorno alla casa del protagonista. Personaggi tipo, insomma, di una qualsiasi provincia, ma ovviamente estremizzati a fini comici.

Tony, nel mezzo delle vite dei suoi amici e colleghi, deve cercare ogni giorno di trovare un motivo per alzarsi dal letto ed uscire di casa. Lo fa spinto anche dai consigli che gli dà Ann (Penelope Wilton), la donna che incontra al cimitero, l’unica che sembra riuscire a decifrare davvero costa sta passando.

Così, tra improbabili storie di cui dover scrivere, goffi tentativi di approcci sentimentali e maggiore consapevolezza delle persone intorno a sé, quella che sembrava la fine, per Tony, diventa un inizio, un percorso ancora lungo ma che non gli impedisce già ora di vedere le cose diversamente.

Si può ridere della solitudine?

La prima stagione era tutta incentrata sulla depressione, sull’idea della fine e dell’impossibilità (o, meglio, della sensazione che fosse così) di riprendere a vivere dopo un evento che segna la vita di una persona. Gervais, che non le manda mai a dire nei suoi monologhi (date un’occhiata a quello dice durante l’apertura dei Golden Globe, di cui è stato presentatore per ben cinque volte, per farvi un’idea), in After Life applica lo stesso approccio “duro e crudo” ma che, proprio per questo, diventa estremamente realistico e sincero.

Così, se la prima stagione si era conclusa con la voglia da parte di Tony di riprendersi in mano la propria vita, nella seconda non lo troviamo totalmente in carreggiata e felice, come se avesse resettato quanto gli fosse successo prima. After Life 2 ci insegna che per le cose buone ci vuole tempo: e così, se Tony è sinceramente intenzionato a stare bene, non sarà facile per lui riuscirci in un batter d’occhio.

La nuova sfida (se di sfida si può parlare) si chiama solitudine: il restare da soli diventa l’ostacolo che il protagonista dovrà superare nella seconda stagione. Un’impresa non semplice, fatta di dubbi, paure e sentimenti contrastanti, che rivelano ancora una volta come After Life sia un gioiellino da non perdersi.

Il tema della solitudine attraversa Tony ma anche, in modo ovviamente differente, anche gli altri personaggi, tutti alle prese con la paure di restare soli e con metodi più o meno efficaci per provare a restare in piedi di fronte a quel mostro che è, appunto, la solitudine.

L’effetto semplicità di Ricky Gervais

After Life, ad una visione superficiale, potrebbe sembrare una serie abbastanza semplice: non ha dialoghi intrisi di particolare profondità, non ha effetti speciali neanche a pagarli, l’ambientazione non è di quelle paradisiache o ultra metropolitane. Ma allora, perché in giro per il mondo il pubblico si è commosso seguendo la storia di Tony?

Il segreto sta nella semplicità con cui Gervais ha voluto raccontare il dolore, senza infiorettarlo di troppi addobbi che avrebbero potuto distrarre l’attenzione ed andando dritto al punto. Trattando il lutto e la perdita come un argomento di una delle sue battute, Gervais ha trovato la schiettezza necessaria per risultare credibile e colpire al cuore il pubblico.

L’empatia è assicurata, grazie ad un protagonista ordinario, interpretato da un attore dall’aspetto ordinario che non pretende nulla se non di voler raccontare un viaggio. Un anno fa parlavamo di queste serie associandola al fenomeno della letteratura “uplit”, ovvero quei romanzi in cui il protagonista riesce a risollevarsi dopo un serie di vicissitudini drammatiche. After Life 2 allarga quel concetto e ci invita a seguire Tony, ad abbracciarlo e, con lui, a non rinunciare a vedere il buono che c’è intorno a noi.

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