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Sanremo, da Povia a Scanu. Quando a decidere fu solo il televoto

Il caso Sanremo invade la politica, che vuole restituire il totale potere al pubblico a casa. Ma come andò quando a decidere fu solo il televoto? Da Povia a Scanu, storia di un metodo che è tutto tranne che impeccabile

pubblicato 13 Febbraio 2019 aggiornato 31 Agosto 2020 00:56

Il caso Sanremo invade la politica. Accade dunque che da un giorno all’altro le principali preoccupazioni del governo si spostino dalla recessione tecnica del Paese alla presunta volontà popolare violata con la vittoria di Mahmood.

Tutta colpa del televoto, non rispettato e mescolato ai giudizi della stampa e della cosiddetta giuria d’onore. E così, anziché Ultimo, a trionfare è stato il 26enne italo-egiziano, che se fosse dipeso solo dal pubblico a casa si sarebbe classificato al terzo posto.

In vista della 70esima edizione del Festival si potrebbe rivedere nuovamente il regolamento di votazione, mutato più volte nel corso degli anni senza che si sia mai arrivati all’individuazione di un procedimento che allontanasse sospetti e polemiche.

Ma soffermiamoci proprio sul televoto, invocato da Salvini e Di Maio e ‘benedetto’ persino dal direttore artistico Claudio Baglioni. L’anno della svolta fu il 2004, quando il festival targato Renis-Ventura affidò integralmente il potere ai telespettatori. A imporsi fu Marco Masini con “L’uomo volante”, che ebbe la meglio su Mario Rosini e Linda Valori.

Dodici mesi dopo con l’identico metodo venne incoronato Francesco Renga (“Angelo”), mentre nel 2006 il pubblico premiò “Vorrei avere il becco” di Giuseppe Povia, che staccò i Nomadi e Anna Tatangelo.

Per ribeccare il televoto determinante al 100% si dovettero attendere tre anni. Nel 2009 il primo posto andò a Marco Carta (“La forza mia”), che staccò Povia (autore della contestatissima “Luca era gay”) e Sal Da Vinci. Il Bonolis-bis segnò uno spartiacque, inaugurando l’era di Amici che si sarebbe ripetuta nel 2010 con Valerio Scanu (“Per tutte le volte che”) e nel 2012 con Emma Marrone (“Non è l’inferno”). Nel mezzo l’eccezione di Roberto Vecchioni (“Chiamami ancora amore”).

Da lì lo stop. Dal 2013 si tornò alla ‘spartizione’ delle responsabilità, con il televoto che comunque mantenne un potere del 50% nelle due edizioni di Fazio (primatisti Marco Mengoni e Arisa), nel 2018 (Meta-Moro) e per l’appunto quest’anno.

Pensare che lo strapotere al televoto possa restituire pace al Festival è assolutamente illusorio. Tale metodo favorisce infatti inevitabilmente il target giovanile, andando di conseguenza a penalizzare il pubblico (e l’artista) più tradizionale e maturo. Non è un caso che in quattro dei sette casi analizzati, il primo posto sia andato a cantanti under 35.

Col solo televoto si consegnerebbe potere totale ai fan, in una sorta di gara a chi ha più followers. Senza dimenticare un altro fattore, come l’ordine di apparizione. I primi a salire sul palco godono di una platea potenziale di 10-12 milioni, che si dimezza a partire da metà serata. Il bacino d’utenza non è pertanto uguale per tutti, come sottolineato all’ultimo festival da Enrico Nigiotti, irritato per essere uscito tre volte su quattro dopo la mezzanotte.

Basterebbe forse restituire peso e valore alla giuria d’onore (o di qualità) riempiendola esclusivamente di cantanti e musicisti. In fondo, nella commissione tecnica che assegna i David di Donatello mica ci troviamo i ragazzi del Volo.

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