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Gli spettatori, questi sconosciuti

Rispondo al bel pezzo di Italo Moscati dal titolo Malaparte, ho letto Malaparte e mi è sorta una domanda: che fine ha fatto lo spettatore tv?, uscito ieri sul nostro TvBlog. Rispondo, o meglio propongo un punto di vista, alcune considerazioni e, di fatto, rilancio il dibattito, se credete.Per cominciare, occorrerebbe una premessa tassonomica o

26 Agosto 2009 11:31


Rispondo al bel pezzo di Italo Moscati dal titolo Malaparte, ho letto Malaparte e mi è sorta una domanda: che fine ha fatto lo spettatore tv?, uscito ieri sul nostro TvBlog. Rispondo, o meglio propongo un punto di vista, alcune considerazioni e, di fatto, rilancio il dibattito, se credete.

Per cominciare, occorrerebbe una premessa tassonomica o quantomeno una definizione: chi è lo spettatore? Esiste? Mi si potrà far notare che, naturalmente, occorre parlare di media, di spettatore medio, ma al tempo stesso potrei ribattere che, nel panorama variegato dell’offerta televisiva, che ormai emerge in qualunque modo e con declinazioni talmente differenti e particellizzate da far mettere le mani nei capelli a qualunque amante della catalogazione, lo spettatore medio è indefinibile. Del resto, tiro l’acqua al mio mulino, in quanto non credo alle etichette e alle generalizzazioni.

Tuttavia, prendiamo per buona la definizione del De Mauro Paravia, che ci permette una generalizzazione talmente ampia e al tempo stesso talmente evanescente da fare al caso nostro: chi assiste a uno spettacolo, a una gara sportiva, a una cerimonia e sim.

Questo è lo spettatore. E’ chi assiste. Banalmente. Chi sta lì, come Homer, davanti al televisore, passivamente, senza partecipare (queste due precisazioni, il passivamente e il senza partecipare fanno parte della seconda definizione del De Mauro, pensate).

C’era un qualcosa che accomunava fasce di spettatori, un tempo, ed era l’uniformità dei palinsesti. Penso alla mia giovinezza, quando si guardava tutti – i coetanei, ovvio – Bim Bum Bam: era un appuntamento condiviso e condivisibile, che aveva quasi il sapore dell’evento quotidiano, da commentare il giorno dopo. Era una forma di identità e di identificazione molto forte – oggi probabilmente ne paghiamo le conseguenze in termini sociali e politici, ma non mi va di addentrarmi anche in questa serie di infinite considerazioni -: non solo si era spettatori, si era spettatori che vedevano la stessa cosa.

Oggi, la vastità dell’offerta – eccezion fatta per alcuni programmi-evento che generano fazioni di spettatori e non-spettatori – impedisce quasi del tutto questa forma di identificazione, perché chi decide ha capito – o pensa di aver capito – da un’analisi dell’evoluzione dei c.d. new media – analisi più o meno conscia non sta a me dirlo né saperlo – che la strategia per catturare lo spettatore sia proprio la varietà dell’offerta, la specializzazione. Vistosi negata anche l’unica forma di partecipazione possibile, a meno che non vogliate credere all’interazione con il televoto o agli user generated contents, lo spettatore rimane lì, come Homer, anche di fronte alla vastità.

Mai capito – ecco la mia risposta a Italo -, forse nemmeno mai analizzato, ma solo utilizzato come strumento – e anche come utilizzatore finale, per sbandierare ascolti che fanno vendere spazi pubblicitari che fanno vendere, forse, prodotto, lo spettatore ha solo l’illusione di poter dire la sua.

In definitiva, i miei due centesimi sull’argomento si concludono così: lo spettatore non esiste, e se esiste è solo un oggetto in mano al broadcaster. Ma chi è il broadcaster?