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Roberta Petrelluzzi a Blogo: “Un giorno in pretura è un affresco della realtà italiana”

Roberta Petrelluzzi racconta Un giorno in pretura, in ripartenza sabato 17 marzo su Rai 3. Intervista.

pubblicato 17 Marzo 2018 aggiornato 1 Settembre 2020 02:04

Un giorno in pretura, la trasmissione più longeva di Rai 3, compie trent’anni e riprende la sua messa in onda da sabato 17 marzo. I processi narrati da Roberta Petrelluzzi sono diventati un appuntamento imprescindibile del sabato sera televisivo per un’importante fetta di telespettatori. “Torniamo con processi molto interessanti. Posso dirlo: questa è una serie bellissima”, dice con il sorriso la conduttrice, ideatrice e regista del programma. “Ogni omicidio, ogni storia, è diversa dall’altra. Così viene mostrata la ricca e complessa umanità che ci circonda. Dal processo a Francesco Furtì per l’omicidio all’avvocato Musy, trasmesso nelle prime due puntate, emergerà per esempio un mondo torinese contenuto e da galantuomini. Quando piangono, loro lo fanno trattenendosi”.

Come avviene la scelta dei processi?

“Avviene attraverso una cernita e una scelta ben precisa. Certi sono più famosi come quelli legati a Musy o Dj Fabo, e certi sono più nascosti nelle pieghe delle cronache locali come quello della suora Mariangela Farè accusata di molestie sessuali in un oratorio. La scelta avviene in base all’interesse che ha suscitato nell’opinione pubblica il processo, ma anche in base alla collocazione geografica. Cerchiamo di rappresentare tutta l’Italia e tutte le estrazioni sociali: dal nord al sud, dalla borghesia al popolo”.

Insomma, Un giorno in pretura è un grande affresco sulla realtà italiana?

“E certo. Un giorno in pretura è il luogo dove le persone sono più sincere possibili, perché in un tribunale parlano sotto giuramento, e noi le mostriamo senza mediazioni. Sono portate a dire la verità, anche perché si sentono in dovere di contribuire a rimediare un torto o a rendere giustizia a una vittima. Qui la realtà emerge senza finzioni e senza veli”.

Lei non è solo la narratrice, ma è anche l’ideatrice e la regista.

“Ci sono io con la mia esperienza di lungo corso, ma al mio fianco lavora con me una equipé composta da giovani molto bravi, attenti e pieni di idee. Siamo un gruppo affiatato”.

Piace molto il suo stile narrativo, quasi inamovibile. E’ una scelta precisa?

“Ho scelto uno stile distaccato ma anche pietoso, senza la bava alla bocca che si riscontra spesso altrove. Non vogliamo far emergere la voglia di vendetta. La vita offre tanti scalini da percorre: qualcuno inciampa, qualcuno ha la fortuna di avere le gambe più salde. Nessuno nasce cattivo, forse qualcuno, ma sono rare le persone nate con il giglio della cattiveria. Allora noi vogliamo cercare di capire la loro complessità che li ha portati a diventare protagonisti di un processo”.

Qualcuno sostiene che il programma sia troppo morboso, lei che ne pensa?

“Non sono d’accordo. Siamo sempre pronti ad accogliere le critiche e anche a ravvederci, però non credo ci sia morbosità nel nostro programma. C’è solo la voglia di scavare e cercare di comprendere per ricomporre un quadro, tenendo sempre conto che la verità processuale non è sempre detto che sia la verità di come sono andate veramente le cose. Un processo è una paziente ricostruzione: se è fatta bene si avvicina alla realtà, se è fatta male non si avvicina. Ma non è il Vangelo”.

Quanto lavoro c’è da parte vostra per ogni singolo processo?

“Nessuno si rende conto del lavoro che c’è dietro un processo. E’ un lavoro minuziosissimo. Noi partiamo sempre dagli atti processuali, che leggiamo dall’inizio alla fine con grande attenzione, e poi ricomponiamo il tutto attraverso una sorta di sceneggiatura, unendo i pro e i contro, le accuse e le difese”.

Anche quest’anno la struttura del programma sarà confermata in toto?

“Quando Un Giorno In Pretura è iniziato, ormai trent’anni fa, non faceva altro che mettere le telecamere in un’aula di giustizia, riprendere tutto e trasmettere con i dovuti tagli, ma seguendo proprio l’andamento del processo. Da tanti anni invece si è scelta una formula diversa per aiutare chi guarda a capire, smontando e rimontando il processo. Così sarà anche quest’anno”.

Le piacerebbe far tornare il programma in prima serata, dove tutto era nato?

“Essendo un’anziana signora, mi piace anche la nicchia. Ma non è detto che non torneremo”.

Già a maggio ci saranno due speciali in prime time (il 20 e il 27 maggio).

“Saranno due speciali su processi che hanno ispirato due film, quello di Sorrentino sul processo Tarantini e quello di Garrone sul Canaro della Magliana. Faremo due prime serate con una riproposizione di questi processi in maniera rielaborata”.

Che effetto fa essere la trasmissione più longeva di Rai 3 con trent’anni di attività? Credo sia una bella medaglia da appendersi al petto.

“Ma sa, siamo fieri. Quando uno lavora tanto e con passione, non si rende conto che sta facendo qualcosa che resta. Questa trasmissione può essere eterna, perché il mondo non finirà con noi e i processi continueranno a raccontare dove andremo e come saremo”.

Il lavoro di Storie Maledette è complementare al vostro?

“Il loro lavoro è molto diverso. Loro vanno a scavare nell’animo e nella personalità del condannato, sono più psicanalitici. Il nostro lavoro si basa sulla realtà. Teniamo più conto della complessità della storia che della complessità del colpevole”.

Lei si sente una “icona contemporanea” come qualcuno la definisce?

“(ride, ndr) Per fortuna non frequento molto il web. Mi sembra il segno dei nostri tempi: anche un’illustre normale, banale, signora diventa un’icona. Mi fa indubbiamente piacere essere considerata per la mia fatica professionale, solo che rischia di essere esaltante, quindi cerco di porre un freno”.

Alcune umanità scovate dal vostro programma diventano degli “idoli” per il cosiddetto popolo del web, nonostante siano degli assassini. C’è una pagina, “Non uscire il sabato sera per vedere Un giorno in pretura“, con quasi 400mila seguaci. Le fa paura tutto questo aspetto?

“No, questa cosa mi piace perché mostra la complessità della realtà: non è mai bianco o nero. Alberto Biggiogero (un testimone chiave per il processo Uva, idolatrato sul web con pagine ad hoc, ndr) ha ucciso il padre, è un mostro, però ha anche una sua umanità. Non è solo quello capace di uccidere il papà, ma anche quello stralunato, fuori dal mondo, che crede di risolvere tutto con una battuta. Questi personaggi sono al limite fra la ragione e la follia”.