Home Amici di Maria De Filippi Benigni e Marco Carta: dal meglio al peggio di Sanremo. Con una domanda: i talent show italiani producono talenti o uccidono lo spirito critico?

Benigni e Marco Carta: dal meglio al peggio di Sanremo. Con una domanda: i talent show italiani producono talenti o uccidono lo spirito critico?

Ieri ho scritto un post per Tvblog ove accenavo alle quote dei bookmakers per il Festival di Sanremo che andava a incominciare. I favoriti e gli sconfitti in partenza, cose così. Nel pezzo parlavo della buona considerazione nutrita dagli esperti per le potenzialità di Marco Carta e, scrivendo, aggiungevo che in un certo qual modo

18 Febbraio 2009 13:26

Marco Carta

Ieri ho scritto un post per Tvblog ove accenavo alle quote dei bookmakers per il Festival di Sanremo che andava a incominciare. I favoriti e gli sconfitti in partenza, cose così. Nel pezzo parlavo della buona considerazione nutrita dagli esperti per le potenzialità di Marco Carta e, scrivendo, aggiungevo che in un certo qual modo queste speranze erano effettivamente ben riposte perché, al di là del talento o meno del ragazzo, che a me non piace, mi pareva sicuro che il “rumore di fondo” generato intorno a lui dal bailamme datogli dall’aver vinto Amici, l’avrebbe certamente aiutato, quantomeno relativamente al favore del pubblico.

Nei commenti, a decine sono arrivati, tumultuosi e incazzati, i fan di Marco Carta, i quali mi hanno dato l’impressione, devo dirlo, di non essere tanto fan di Marco Carta, quanto appassionati del format di “Amici” che ha lanciato il ragazzo nel mondo della canzone italiana di intrattenimento. Leggendo i commenti di queste persone, rispettabilissime, mi sono reso conto che la televisione non differisce molto dallo sport, quanto a partigianeria e spirito d’appartenenza cieco e barbaro. Tra i commenti del mio post sono comparsi, guarda caso, strali violentissimi verso chiunque osasse ammettere di preferire X Factor, che so io, ad “Amici”: leggendo tra le righe di questa grande e furibonda passione, non m’è parso di trovare tanta differenza con le corna rivolte all’arbitro dagli spalti o le sciarpe avversarie strappate dal collo dei tifosi dell’opposta fazione. Ho percepito, per l’esattezza, lo stesso rumore insondabile, il medesimo chiacchiericcio senza direzione che, seppure meravigliosamente umano e condivisibile, non può tuttavia portare verso alcuno sbocco critico ragionevole.

A un tifoso della Roma non puoi dire che Totti si sta facendo vecchio e inutile, è naturale. All’interista modello è meglio evitare di suggerire che, forse, il gol di Adriano contro il Milan non era regolare: in nessuno di questi due casi riportati si arriverà a una discussione interessante e direzionata. Il che va bene, pure io lo faccio, lo facciamo tutti, però, come dicevo, non è minimamente sintomatico di un giudizio critico. Quando si chiacchiera, si chiacchiera; quando si fa critica, si fa critica. Non ho letto un solo commento, tra quelli dei “tifosi” di Marco Carta che mi abbia spinto a fermarmi un momento e rivedere il mio giudizio in proposito: anzi, tale bailamme indiscriminato, fatto di sgrammaticature dovute alla fretta di dire la propria, offese, attacchi ad personam e inviti a cambiare mestiere, URLA, mi ha fatto immediatamente pensare che Marco Carta avrebbe potuto essere molto meno bravo e talentuoso di quello che è, perché tanto la gente, appassionata più che altro di Maria De Filippi e dei suoi programmi, l’avrebbe amato alla stessa maniera. Come i romanisti amano Totti, indipendentemente dal suo stato di forma, come gli juventini di una volta ostracizzarono Roberto Baggio traditore senza sentire ragioni: i primi perché amano la Roma, i secondi la Juve. Alla fine conta la squadra. Contano i colori.

Fattasi sera, guardando il Festival di Sanremo, alzando il volume in corrispondenza del meraviglioso monologo di Roberto Benigni, ammirando la sapienza professionale di Paolo Bonolis e, insomma, occhieggiando qua e là, durante la diretta, sprazzi di autentico talento, ho immediatamente ripensato alla cascata di commenti bollenti arrivati in merito al mio post su Marco Carta.

Ho capito che sarebbe bello, bellissimo se noialtri, italiani, spettatori, appassionati del tubo catodico, affinassimo veramente, e una volta per tutte, il nostro spirito critico: questo perché ci sono cose che valgono sul serio la pena d’essere viste, sentite, apprezzate e che invece, purtroppo, il più delle volte vengono spente, ignorate, affossate da un marasma inintellegibile. Benigni appunto, magnifico, certi picchi strumentali dell’orchestra, i Queen di Katy Perry, l’intonazione perfetta e professionale di Francesco Renga; sarebbe bello parlare della qualità, del talento, emozionarsi seriamente per dei tizi che, pagati profumatamente, restituiscono tutto nella forma di qualcosa che loro e soltanto loro possono fare. L’esclusività dell’arte è qualcosa che non ha prezzo. Invece ci facciamo confondere dal rumore, dalla partigianeria, dallo spirito d’appartenenza, appassionante ma cieco: perciò capita che il sottoscritto non possa parlare, in un post, di “rumori di fondo”, relativamente all’attenzione rivolta dai bookmakers nei confronti del “de filippiano” Marco Carta, perché centinaia di tifosi inviperiti stroncano sul nascere qualsiasi forma di buona discussione.

Questi tifosi, che io antropologicamente non posso non comprendere, perché mi sono affini, non capiscono che il “rumore di fondo” intorno al loro beniamino, cioè il sommovimento popolare che l’essere stato il vincitore di “Amici” inevitabilmente regala, è l’unica arma che possono sollevare per sperare in una sua vittoria sanremese. Dovrebbero tenerselo stretto, il “rumore di fondo” che d’altra parte loro stessi hanno contribuito a creare! Questo perché Marco Carta, “Amici” o non “Amici”, non ha la minima parvenza di anima nel canto, la sua esibizione ci ha regalato un passo indietro di una quindicina d’anni: la canzone era spietatatamente brutta, obsoleta. Un Biagio Antonacci con una gamba legata avrebbe proposto qualcosa di meglio con dieci minuti di lavoro.

L’enorme polverone che tale massa ingnava solleva intorno a un fenomeno televisivo come Marco Carta ne nasconde inevitabilmente i difetti: se mi metto a pensare che tantissime persone, una volta sentita la canzone del loro prediletto, possano aver scelto di cambiare canale, perché ormai soddisfatti, e perdersi così la performance di Benigni, o quella di Perry, mi mette i brividi. Mi fa venire voglia di cambiare posizione sulla sedia. Alla stessa maniera, se mi metto a pensare che il semplice aver vinto “Amici”, potrebbe dare la vittoria finale a Marco Carta, a discapito del talento altrui, non mi sento sereno. Sarebbe magnifico se lo spirito critico della gente fosse così temperato da permettere, ogni tanto, un onesto passo indietro: ne gioverebbe il prodotto televisivo, quello artistico e financo la conversazione.

Ancora più bello sarebbe se l’oggetto di tanta e tale idolatria infine salisse sul palco e sfoderasse una performance epocale destinata a sopravvivergli; sarebbe stupendo se noi scettici ci riconoscessimo eretici e facessimo mea culpa. Invece non succede mai. Mai. E’ come la squadra di calcio che ti dà l’impressione che quella sera prenderà tre gol e poi, in effetti, scende in campo e prende tre gol. Non c’è mai un sovvertimento del pronostico: non voglio dire che i talent show italiani non producono niente. Producono. Dico che, spesso e volentieri, quello che esce dalla bocca di queste trasmissioni non è un nuovo cantante talentuoso, ma la voglia cieca di scorgercene uno per forza.

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