Home Che Tempo Che Fa Beppe Tosco lascia Caschetto e forse la Littizzetto: “Ogni tanto bisogna cambiare, ma i comici fanno fatica a capirlo”

Beppe Tosco lascia Caschetto e forse la Littizzetto: “Ogni tanto bisogna cambiare, ma i comici fanno fatica a capirlo”

L’autore di Luciana Littizzetto passa alla Colorado Film e forse abbandona la comica torinese: “Ogni tanto bisogna cambiare”

2 Luglio 2012 11:15

Beppe Tosco è scrittore, attore e conduttore radiofonico, ma soprattutto autore televisivo. Dietro i monologhi di Luciana Littizzetto a Che tempo che fa, infatti, c’è la sua mano. Con lui, inizia il nostro viaggio nella comicità televisiva.

Beppe, la comicità italiana sul piccolo schermo sta male?

“No, credo che la situazione cambi da periodo a periodo, ciclicamente. In questo momento, per esempio, a parte quello di Crozza manca completamente il varietà comico, fatto con contributi visivi e sketch articolati. Adesso funziona solo il programma con il comico che arriva, fa il suo pezzo di otto minuti e se ne va, poi c’è un altro comico che arriva, fa il suo pezzo di otto minuti, se ne va e così via… Zelig e Colorado per anni hanno funzionato così, anche se ora stanno perdendo un po’ di appeal”.

Non ti piace quel tipo di comicità?

“Non mi fa impazzire, soprattutto se poi non ci sono testi all’altezza. Ormai non ci sono più monologhisti che fanno ragionamenti, è tutto un susseguirsi di calembour e giochi di parole. Appena aprono bocca sai già cosa diranno”.

Non ci sono alternative?

“È un problema più generale della tv: appena si trova un formato vincente, tutti si buttano su quello. Il talk show politico fa ascolti? Ogni rete pullula di talk show politici. E così succede nel mondo della comicità: la teoria di comici sul palco uno dopo l’altro funziona? Sfruttiamo il più possibile questo formato. Anche se mi sembra un filone destinato ad esaurirsi”.

Trasmissioni decisamente diverse rispetto a Ciro, il figlio di Target, che tu hai contribuito a realizzare.

“Certo, quello era un programma diverso, più articolato: credo che fra un po’ tornerà di moda, anche se i costi di realizzazione sono superiori rispetto a un programma che si limita a inquadrare dei comici che recitano il proprio pezzo sul palco”.


Tu sei l’autore storico di Luciana Littizzetto: la vostra collaborazione continuerà?

“Non è sicuro, ne stiamo ancora parlando. Io credo che Luciana a Che tempo che fa debba fare dei cambiamenti: tieni conto che da otto anni, per trenta settimane ogni anno, fa un monologo di quindici minuti. Trovare materiale nuovo è sempre difficile. Insomma, Benigni inventa un’ora di repertorio all’anno: ora, senza paragonare Luciana a Benigni, è evidente che sette ore e mezzo di materiale in un anno sono molte. Il problema è che i comici generalmente fanno fatica a staccarsi da ciò che funziona: tutelano quel che hanno prodotto. Pensano: se la gente vuole e apprezza quello che dico, chi me lo fa fare di cambiare? In generale, poi, credo che il ciclo di Che tempo che fa stia andando esaurendosi. Insomma, ne stiamo parlando”.

Ora non avete più nemmeno lo stesso agente (Beppe Caschetto).

“Sì, io sono passato sotto la casa di produzione di Colorado”.

Come mai?

“Il fatto è che obiettivamente gli autori non fanno guadagnare nulla agli agenti. Gli autori servono agli agenti perché scrivono i programmi (soprattutto in questo momento, visto che gli agenti praticamente “producono” un sacco di trasmissioni), ma non hanno potere, non hanno lo stesso appeal di un personaggio televisivo. Una Geppi Cucciari che partecipa alle convention di Telecom o che fa la pubblicità di Activia fa guadagnare a un agente cinquanta volte di più rispetto a un autore. Insomma, con Caschetto ritenevo di non ricevere sufficienti attenzioni. Ma non gliene faccio una colpa, sia chiaro: ognuno cerca di seguire i propri interessi ed è normale che sia così. E anche io ho cercato di puntare verso il meglio”.

Quindi ti vedremo tra gli autori di Colorado?

“Ancora non lo so, non è detto: per ora mi hanno chiesto una mano per visionare un po’ di nuovi comici (non eccezionali, a dire la verità), non so se poi farò effettivamente parte della squadra. Di certo non sarò il capo-progetto: non è il mio mestiere, non fa per me”.

Quindi, quali sono i tuoi prossimi progetti televisivi?

“In ballo c’è la sceneggiatura di un tv movie, ma soprattutto una sit-com che ho scritto, ormai quattro anni fa, con Andrea Zalone”.

Di cosa si tratta?

“Una sit-com che è un eufemismo definire scorretta. Si chiama Kalashnikov, e parla di camorra. Il protagonista è un killer, padre di famiglia, che per arrivare a fine mese deve periodicamente uccidere una persona. L’idea mi era venuta quando, tempo fa, lessi che il “cachet” che la camorra offre ai sicari per eliminare qualcuno è di 1500 euro, come se si trattasse di una normale prestazione occasionale di un libero professionista”.

E che fine ha fatto il progetto?

“Mediaset, attraverso Fatma Ruffini, ci ha pagato il soggetto e la sceneggiatura, ma la sit-com non ha mai visto la luce. E in effetti si tratta di un prodotto particolare, che sinceramente penso potrebbe andare in onda solo su Sky. La nostra speranza è quella di realizzarla, prima o poi”.

Eppure le sit-com in Italia sono tutto tranne che un genere di successo.

“È vero, ma il motivo è molto semplice: in Italia le fiction sono fatte molto male: la differenza con quelle americane è sotto gli occhi di tutti. Il discorso è sempre lo stesso: si segue la moda. Un genere funziona? Ci si butta solo su quello, come è successo per esempio con le sit-com a camera fissa (con Camera Cafè, Cotti e mangiati e Colpi di sole, ndr). Ma il problema è soprattutto a livello autorale. Mancano dei bravi sceneggiatori. Ti racconto un aneddoto che mi riguarda, non relativo a una sit-com: un paio di anni fa ho lavorato sulla sceneggiatura della fiction Non smettere di sognare. Il mio compito era di migliorare i dialoghi (specialmente quelli di Giuliana De Sio, per rendere il suo personaggio ironico e strampalato): ebbene, sui copioni vedevo battute di cinque o sei righe. Praticamente i dialoghi, invece di essere botta e risposta, non erano altro che monologhi pesantissimi montati insieme. Una scrittura di una vecchiezza pazzesca”.

Torniamo agli show comici: ti chiedo un giudizio sui programmi di Maurizio Crozza, Serena Dandini e Sabina Guzzanti.

“Crozza mi è piaciuto tantissimo, anche perché può contare su Andrea Zalone, l’autore televisivo più bravo in Italia. Ha realizzato un programma eccezionale potendo contare solo su una settimana di prove tra una puntata e l’altra: per fare la stessa cosa negli anni Settanta serviva un mese. Lui invece ha cantato, recitato sketch articolati e complessi con una scioltezza fantastica. La Dandini? Un po’ vecchio stile, ha fatto vedere sempre le solite cose, anche se alcune erano carine. Il problema è che ha creato un mix di tanti ingredienti, senza alcuna unità stilistica, che invece è fondamentale. Sulla Guzzanti, invece, ti confesso che mi avevano chiesto di lavorare per lei, ci siamo anche incontrati, ma alla fine non se ne è fatto nulla. Sai, lei mi mette quasi ansia, paura: non è facile scrivere per lei”.

Per la Littizzetto sì, invece?

“No, nemmeno. Quest’anno, per esempio, ho dovuto convincerla a parlare un po’ meno di cacca, pipì e genitali”.

Temevate accuse di volgarità?

“No, non per quel motivo, anche perché Luciana non è volgare. Parla di quelle cose come ne parlano i bambini, con purezza e innocenza, senza allusioni pesanti o maliziose. Però è chiaro che non si può parlare solo di quello, bisogna anche variare. Ma, come ti dicevo, i comici sono restii a cambiare una cosa che funziona”.

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