Home Un medico in famiglia Le fiction parlano poco di crisi? Fa paura ai produttori. Solo le soap ci riescono

Le fiction parlano poco di crisi? Fa paura ai produttori. Solo le soap ci riescono

Milly Buonanno dell’Osservatorio sulla fiction italiana spiega che i produttori hanno paura di affrontare la crisi nelle fiction, e che solo le soap opera riescono a trattare questo tema, mentre in Spagna si esportano nuovi format

pubblicato 5 Luglio 2013 aggiornato 3 Settembre 2020 16:47

Famiglie più o meno felici, preti e suore alle prese con personaggi dal vario spessore, e tanti poliziotti: questo, a grandi linee, il quadro della fiction italiana, lo sappiamo bene. Ma se dovessimo osservare le nostre serie tv dal punto di vista della crisi, cosa troveremmo? Ben poco, stando a quanto fa notare in un’intervista ad “Il Manifesto” Milly Buonanno, direttrice dell’Osservatorio sulla fiction italiana ed ordinario di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi all’Università La Sapienza di Roma.

Secondo la Buonanno, l’assenza di un tema così attuale come la crisi economica nella fiction italiana è dovuto principalmente a due motivi: innanzitutto, i produttori hanno paura di investire su storie il cui lieto fine non è proprio garantito:

“Raccontare la crisi significa toccare un nervo scoperto ed è qualcosa che la fiction italiana fa con difficoltà, in quanto ha una tendenza un po’ pacificante. I broadcaster hanno poi timore di investire nell’argomento in quanto pensano che possa non avere audience. Infatti in tempi difficili la gente vuole divertirsi e non piangere davanti alla televisione. Inoltre i tempi di progettazione e di produzione di una fiction sono molto lunghi, più di due anni, e l’argomento ‘crisi’, pur non recentissimo, è stato tematizzato a livello nazionale ed interazionale in senso forte solo l’anno scorso”.

In effetti, se guardiamo alla fiction italiana, i pochi esempi in cui la crisi è entrata nelle storie lo ha sempre fatto in punta di piedi e nascondendosi dietro ad altre vicende oppure buttandola sul ridere (come nell’ultima stagione di “Un medico in famiglia” e di “Che Dio ci aiuti”).

C’è poi il problema dei personaggi mostrati in tv. Secondo la docente, infatti, la crisi non può far parte delle loro storie perchè persone appartenenti a ceti sociali medio-alti, toccati in misura inferiori dalle difficoltà economiche:

“La fiction, non solo quella italiana, si potrebbe occupare di crisi in due modi: o mettendo in scena storie che la tematizzano e trattano le conseguenza che essa comporta per i singoli e le famiglie, o rappresentando quegli strati della società che ne sono più colpiti, ovvero quelli medio-bassi. Nessuno di questi due casi si verifica. Questo perchè soprattutto la produzione seriale italiana si ferma alla classe media estesa oppure parla del ceto medio-borghese”.

L’unico genere che potrebbe trattare la crisi con realismo senza farlo pesare sarebbe la soap opera. Non solo in Italia, ma anche all’estero questo genere è riuscito a raccontare le difficoltà economiche delle famiglie meglio di altri format. L’eccezione, manco a dirlo, arriva dall’America:

“La soap opera del Regno Unito, ma anche la tradizione cinematografica di Ken Loach, hanno avuto una grande cultura popolare operaia e la tradizione di raccontare la vita quotidiana di questo ceto. Eastenders, Coronation street, narrano la vita di tutti i giorni delle classi popolari, ed ancora oggi fanno una media di dieci milioni di telespettatori a puntata. Questo da noi non c’è, la nostra fiction non lo fa. C’è qualche accenno alla crisi economica quasi esclusivamente in Un posto al sole, e più che altro per quanto riguarda la piccola e piccolissima borghesia, per esempio per ciò che concerne i problemi di occupazione. Paradossalmente anche l’ingente produzione seriale americana tocca, anche se incidentalmente, questi problemi. Esiste infatti un serial family, Shameless (remake di una serie inglese, ndr), fiore all’occhiello di Showtime dove il protagonista è un alcolizzato che vive di sussidio pubblico e con una figlia adolescente (in realtà ha vent’anni, ndr) che deve provvedere ai bisogni della famiglia. In questo caso, un ruolo importante è svolto dalla solidarietà tra poveri. Ma la crisi economica è solo uno degli argomenti di questa famiglia disfunzionale”.

Cosa fare, allora? La Buonanno non propone soluzioni (anche perchè se si volesse davvero parlare di crisi nelle serie tv, si troverebbe la formula per farlo, ma a quanto pare questo argomento non interessa i produttori e le reti), ma evidenzia come anche la fiction sia stata danneggiata dalla recessione:

“Se nella stagione 2006/2007 si era arrivati a produrre ben ottocento ore globali, attualmente si è ridiscesi al di sotto dei livelli del 2000, con meno di cinquecento ore prodotte da Rai, Mediaset e Sky, ridiventando l’ultimo tra i cinque grandi Paesi europei”.

Reagire però è possibile: curioso l’esempio della Spagna, che nonostante le difficoltà non ha smesso di produrre ed esportare:

“Tra tutti la Spagna è un caso interessante perchè, sebbene sia nelle condizioni economiche che tutti sanno, ha mantenuto inalterati i suoi livelli produttivi. Punta inoltre su un pubblico giovane, che di solito guarda serie americane e che è trascurato dai nostri produttori. Sta poi esportando sia format che produzioni. Oltre ai successi del passato Un medico in famiglia (tratto dal format Médico de familia) ed I Cesaroni (la serie originale si chiamava Los Serrano), recentemente ha venduto all’Italia ed anche agli Stati Uniti i diritti di Pulseras rojas (Braccialetti Rossi)”.

Come a dire: la crisi economica può bloccare certe storie, ma non è peggiore della crisi creativa.

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