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Lost, stanotte il finale. TvBlog intervista Chiara Poli di “Lost in Progress”

E’ un’attesa che si sente nell’aria, quella per la fine di “Lost”: un “media event”, come l’ha definito stamattina Aldo Grasso sul Corriere della Sera, trasmesso contemporaneamente in più parti del mondo e che per la prima volta coinvolge un serie televisiva. Anche i fan italiani sono pronti: c’è chi seguirà la maratona di tutta

pubblicato 23 Maggio 2010 aggiornato 5 Settembre 2020 15:31


Lost E’ un’attesa che si sente nell’aria, quella per la fine di “Lost”: un “media event”, come l’ha definito stamattina Aldo Grasso sul Corriere della Sera, trasmesso contemporaneamente in più parti del mondo e che per la prima volta coinvolge un serie televisiva. Anche i fan italiani sono pronti: c’è chi seguirà la maratona di tutta la sesta stagione che Fox (canale 110 di Sky) proporrà da oggi alle 17, chi si sintonizzerà sullo stesso canale domattina alle sei, quando verrà trasmesso l’episodio finale, e chi lo vedrà in compagnia di amici e fan, per un “addio” di tutto rispetto.

TvBlog, dopo aver intervistato l’esperto Paolo Trubiano all’inizio della stagione, ora celebra “The End” con un’altra intervista, questa volta a Chiara Poli. Giornalista specializzata in serie tv (su cui ha scritto due libri: “Ammazzavampiri – La prima guida italiana al serial tv Buffy” e “La vita è un telefilm”, con Leo Damerini), è direttrice della testata online del sito ufficiale di Fox Italia. Proprio qui, da sei anni a questa parte, Chiara ogni settimana delizia i fan della serie della Abc con “Lost in progress”, la rubrica che analizza i singoli episodi trasmessi e fa il punto della situazione sullo show cult. A poche ore dall’ultima puntata, abbiamo parlato con lei dell’ “evento Lost”, della critiche mosse agli autori, di un eventuale sequel della serie e del futuro dei telefilm dopo stanotte. Buona lettura!

Attenzione: l’intervista fa riferimenti alla sesta stagione.

Dopo sei anni e 121 puntate, ecco la fine di “Lost”: come ci si sente ad affrontare quest’ultima “scalinata” dopo averne parlato così tanto nei Lost in Progress?

“Ci si sente come un certo personaggio (sto sul vago per evitare spoiler) che siede, in attesa di un momento inevitabile che da una parte rifiuta, ma dall’altra vuole affronta perché… il destino chiama. È un misto di terrore (che tutto quello che hai pensato e scritto per tanti anni finisca in una bolla di sapone) e di curiosità (perché dopo aver tanto pensato e scritto, vuoi sapere).”

Sono state fatte tante critiche a questa sesta stagione, soprattutto perché più che dare risposte, gli autori hanno posto altre domande. Il tuo giudizio generale sull’ultima stagione qual è?

“Quello di cui ho parlato negli articoli ‘La parola alla difesa’ (qui e qui), scaturiti proprio dalle continue critiche alla sesta stagione: che era tutto in linea con lo stile di Lost e che non capivo come mai la gente non se lo aspettasse. Fin dal pilot ogni nuovo episodio ha suscitato domande: era inevitabile che la stagione conclusiva esasperasse questo meccanismo, prima del gran finale. La partenza è stata un po’ confusa, certo: molta carne al fuoco e troppa voglia di concentrarla tutta nei primi episodi, probabilmente. Ma poi la serie è rientrata nei consueti binari: ‘puntatone’ alternate a (inevitabili) momenti ‘di transizione’, per fare il punto della situazione. Io credo che ciò che ha fatto tanto arrabbiare tutti siano i flash-sideways. Perché sono difficili da comprendere. Perché confondono le cose. Perché hanno fatto ‘perdere’ molti nei meandri della narrazione. Perché hanno fatto dimenticare a tutti che il bello di Lost è sempre stato essere costretti a concentrarsi e a sforzarsi di capire.”

Due settimane fa, al Telefilm Festival, ci si è chiesti “Lost: capolavoro assoluto o boiata pazzesca?” Tra i dubbi dei detrattori, era emerso quello secondo cui Carlton Cuse e Damon Lindelof non avessero realmente progettato il finale dall’inizio, ma che avessero navigato a vista. Quanto pensi ci sia di vero?

“Da sceneggiatrice ho la certezza che si tratta di una cosa impossibile: quando scrivi quella che in gergo si chiama “bibbia” di una serie, devi raccontare a grandi linee tutta la trama. Non ci sono i subplot, non ci sono quelle sequenze in più alle quali “ti portano” i tuoi personaggi, non ci sono le caratterizzazioni complete di tutti i protagonisti… Ma ci sono un inizio e una fine. La tv, ricordiamocelo, è un business: chi avrebbe prodotto una serie presentata come ‘la storia di un gruppo di sopravvissuti a un disastro aereo che si ritrovano su un’isola in cui accadono cose strane e poi… Poi decideremo man mano cosa succede?’.

I bravi sceneggiatori pensano a una storia, cioè a un impianto narrativo con un inizio, uno svolgimento e una fine (che molti riconducono, semplicisticamente, al paradigma hollywoodiano). Poi, a seconda del numero di episodi che viene loro concesso, si organizzano aggiungendo sottotrame, personaggi di contorno, ecc. Chris Carter nella prima stagione di X-Files fa dire a Gola Profonda qualcosa che viene spiegato solo 7 anni dopo. Ciò non vuol dire che avesse già in mente 9 stagioni complete e tutti gli episodi… Ma significa che sapeva benissimo quali erano l’inizio e la fine della sua storia.”

E’ difficile che una serie, per quanto amata, possa attirare così tanto l’attenzione nel momento in cui finisce. Ricordi situazioni simili per altri telefilm?

“Per quanto mi riguarda, il ricordo va al finale di Buffy, che è stato il mio primo ‘amore televisivo’ anche dal punto di vista professionale: sono diventata una giornalista specializzata in serie tv dopo aver scritto un libro su Buffy. Per quanto riguarda l’Italia, invece, me ne vengono in mente subito tre: il finale di X-Files, uno dei primi ad ottenere tanta risonanza in rete (molti non concordavano con il finale aperto, e se ne discusse per mesi); quello di Friends, seguito da milioni di persone in tutto il mondo e che io vidi in anteprima al Telefilm Festival in una sala gremita di spettatori commossi; quello di Sex and the City, che sempre al Telefilm Festival portò a lunghissime code per la proiezione della sesta stagione. Perché tutti, ma proprio tutti, volevano sapere cosa ne sarebbe stato di Carrie e Big…”

Agli “orfani” di Lost consiglieresti qualche serie che possa “distrarli” dalla mancanza dell’Isola?

“Come ho scritto recentemente, io non credo che Lost abbia eredi. E credo che mai ne avrà. Di conseguenza, la scelta più saggia è buttarsi su un’altra ‘grande’ serie tenendo ben presente che sarà qualcosa di completamente diverso da Lost. Il bello, in fondo, è anche questo: la ‘lostmania’ è imprescindibilmente legata all’unicità della storia e dei meccanismi di fruizione che l’hanno accompagnata fin qui. Ci sono dozzine di serie ottimamente realizzate e coinvolgenti. Ma al momento (poi vedremo) non si tratta di novità assolute: sono tutte serie già in onda, o magari già concluse, perché dobbiamo ancora scoprire cosa ci riserverà la tv ‘dopo Lost’. Se poi qualcuno si è appassionato ai telefilm grazie a Lost e ama le ‘sfide’, cioè le serie che richiedono un certo impegno nella visione, o che si affidano a meccanismi fortemente ancorati alla continuity, gli suggerirei di dare un’occhiata a 24, Dexter, I Soprano. Proporrei Medium, una serie secondo me spesso sottovalutata, a chi cerca riflessioni importanti su vita, morte, destino e futuro (che si può cambiare). E per chi vuole divertirsi e farsi travolgere dalle emozioni, c’è Glee.”

La serialità è inevitabilmente cambiata dopo “Lost”. La coincidenza (o il destino…) vuole che la settimana di chiusura della serie sia coincisa con quella dedicata agli upfront. Se hai avuto occasione di dare un’occhiata ai nuovi titoli, trovi qualcosa che possa catturare lo stesso pubblico di “Lost” (non per forza qualche che ne sia erede)?

“Il pubblico di Lost è un pubblico intelligente, appassionato, con una mentalità aperta. Perciò credo che sarà sicuramente interessato a Undercovers, l’ultima fatica di Abrams – che ha un sacco di idee geniali; così tante che continua a sfornarne, e va bene così, senza portarle fino alla fine. Parte del suo talento è trovare le persone adatte a cui affidarle (come Lindelof e Cuse). Per il resto, le novità più interessanti saranno sicuramente quelle con i ‘grandi nomi’ dietro: Terra Nova di Spielberg e Boardwalk Empire di Scorsese. Quest’ultima, in particolare, credo che avrà modo di influire sul panorama televisivo: la tv d’autore legata al marchio di HBO ha contribuito a sdoganare tutto ciò che in tv era ancora proibito (cito solo qualche titolo: Oz, Six Feet Under, I Soprano, Sex and the City, True Blood…). Ma anche Cutthroat di ABC potrebbe essere una piacevole sorpresa.”

Come in un flashback, torniamo al settembre di sei anni fa, quando “Lost” partì: alla Abc non erano proprio convinti, mentre il pubblico ha premiato da subito la serie. Quando hai visto il pilota, prevedevi un tale successo?

“Mi aspettavo che la gente sarebbe impazzita, sì. Se non l’avessi previsto non farei bene il mio lavoro. Come ho ricordato recentemente Fox (ai tempi non lavoravo ancora per loro ma ricevevo le novità da visionare per recensirle per conto delle testate con le quali collaboravo) mi mandò la videocassetta del pilot, già doppiato, con un certo anticipo rispetto alla messa in onda italiana. Il risultato fu un mio articolo di presentazione su Satellite che si chiudeva con ‘Preparatevi, italiani. Perché anche voi state per impazzire per una serie intitolata Lost’ “.

Adesso un flashforward: da qui a vent’anni, cosa ricorderemo di più di Lost?

“Noi che l’abbiamo vissuto ‘in diretta’ ricorderemo soprattutto la parte ‘comunitaria’ della fruizione: le discussioni con gli amici, i commenti sul web, l’attesa per i nuovi episodi, le domande e soprattutto le teorie. Le nostre teorie. Le prossime generazioni, invece, probabilmente ricorderanno maggiormente alcuni fra i migliori personaggi mai visti sul piccolo schermo, insieme a tante emozioni e tanta suspense. Loro ricorderanno ciò che noi avremo sempre in mente, senza quello che per noi ha fatto la differenza: ‘il bello della diretta’.”

E sempre sul futuro, che ne pensi dell’ipotesi di un film o di uno spin-off alla “The Next Generation”?

“Io mi auguro che non accada mai, se non in questo modo: sarei entusiasta di uno o più film incentrati sul ‘durante’ – approfondimenti sulle realtà alternative, sui flashback, sulla mitologia della serie – ma non vorrei mai vedere un seguito o uno spin-off. Quando una storia diventa mito, non si tocca. Altrimenti, qualunque cosa si faccia… si fanno danni.”

Ed ora, un salto nella realtà parallela, quella in cui Lost avrebbe ottenuto ascolti da capogiro anche in Italia, cosa non avvenuta. E’ davvero solo colpa di Internet e di Sky se in Rai la serie non ha sfondato, o c’è dell’altro?

“Certo che c’è dell’altro: la programmazione (trasmettere tre episodi consecutivi, cambiare giorno di programmazione, saltare un appuntamento settimanale: cose che uccidono una serie con una continuity forte ed una narrazione articolata come quella di Lost) e la mancata attenzione per l’unicità del prodotto. Si tende a dimenticare che Lost non è ‘una serie per tutti’. Io conosco un sacco di gente che ne riconosce il valore ma non la segue perché ‘mette ansia’ o perché ‘è troppo incasinata, non ci capisco niente e io la sera voglio rilassarmi, sono stanco’. Lost affronta tematiche impegnative con uno stile complesso. Il successo che ha avuto è segno che i gusti e le capacità critiche dei grande pubblico si sono evoluti (e continueranno a farlo anche grazie a Lost) ma la tv generalista italiana non ha contribuito granché, purtroppo.”

Ancora un flash-sideway, in cui un grande produttore decide di affidare una serie tv in gran stile a degli autori italiani: secondo te, saremmo capaci di sfornare show di questo impatto?

“Certo che no. Con qualche rarissima eccezione, la fiction italiana è indietro di dieci anni (e più) rispetto agli Usa. Noi copiamo le serie Usa (faccio un esempio: RIS) ma non siamo capaci di adattarle al nostro contesto (ancora sento gente sui set italiani che pronuncia battute tipo ‘Si vede lontano un miglio’. La prima regola del dialoghista è servirsi di un linguaggio verosimile. I nostri attori parlano per frasi fatte e recitano come se fossero in teatro, cioè in un modo totalmente incompatibile con la tv. Perché nessuno, sui set televisivi, pare in grado di dirigerli come si deve (e non ci vuole molto: a noi sceneggiatori, alla Scuola di Cinema fecero fare un seminario sulla direzione degli attori. Posso giurare che non è difficile). Io ho iniziato la mia carriera con la volontà di lavorare per la tv italiana. Dopo la prima esperienza come autrice ho mollato il colpo: mi chiedevano di scrivere cose, appunto, dieci anni indietro rispetto alla mia formazione. Così mi sono data all’analisi e alla critica. Con grande gioia.”

Ok, basta incensare Lost: ormai siamo alla fine, possiamo essere onesti. C’è qualcosa di questo telefilm che non ti è proprio piaciuto?

“Sì, certo. C’è stato qualche episodio meno riuscito, c’è sempre qualche blooper di sceneggiatura… Ma sono cose alle quali si passa sopra. Con Lost, come si suol dire, il gioco vale la candela.”

Concludendo, chiediamo alla Chiara “professionista del settore”, cosa ti aspetti dal finale?

“Quello che ho spiegato dettagliatamente nel mio articolo ‘Il finale che vorrei’: un finale aperto. Qualcosa che renda onore a ciò che ha fatto di Lost il fenomeno che è diventato, cioé una storia avvincente capace di offrire ai suoi spettatori quella libertà di interpretazione che solo poche grandi storie possono offrire.”

E invece la “Chiara fan sfegatata” cosa si augura?

“La stessa cosa. La mia ‘unicità’, a detta dei miei colleghi, è che non esistono distinzioni fra la Chiara professionista del settore e la Chiara fan sfegatata. Non divento una fan sfegatata di un prodotto che, da professionista, non ritengo estremamente valido. E non mi faccio stampare uno striscione con la foto del cast di Lost e la scritta ‘We have to go back!’ da appendere al balcone per il finale di Lost, se penso che non ne valga la pena. Anni fa ho scritto un saggio intitolato ‘Serial Viewer: confessioni di una fan’ in cui spiegavo che nel mio lavoro la maggior parte della gente considera inconciliabili passione e professionalità. Dal mio punto di vista, però, è vero esattamente il contrario: se non c’è passione, non c’è vera competenza. Io ho studiato anni (e ancora lo faccio: non si finisce mai) per trasformare la mia passione in un lavoro. E non cambierei una virgola di quello che ho fatto (gavetta, sacrifici, nottate insonni, secondi lavori…) per riuscirci.”

Grazie per averci dedicato del tempo, e buon finale di Lost!

“Grazie a voi. Namaste.”