Home Nove Pablo Trincia a Blogo: “Mi è andata di gran cul0”

Pablo Trincia a Blogo: “Mi è andata di gran cul0”

Da Iena a Lupo, in attesa di diventare ‘Cacciatore’ e di raccontare il bullismo: Pablo Trincia ci racconta programmi e progetti.

pubblicato 14 Luglio 2016 aggiornato 1 Settembre 2020 22:31

Voce e modi accoglienti, orecchio attento a cogliere le sfumature, entusiasmo genuino nel raccontare la sua vita e la sua passione per il giornalismo: Pablo Trincia riesce a coinvolgere anche da intervistato e non solo quando va in giro per il mondo a scovare e portare in tv storie affatto semplici dai luoghi spesso più ostili del Pianeta. L’amore per il racconto è evidentemente uno dei suoi tratti distintivi, insieme a quella leggerezza innata che permette di affrontare di tutto, dai narcotrafficanti in Colombia a una telefonata chilometrica in un’afosa mattinata del luglio romano, per la quale lo ringraziamo calorosamente. Si sorride e si ride spesso in questa chiacchierata che ha tutto il sapore della voglia di fare e di scoprire.

L’occasione è data dalla partenza di Lupi – Limited Access Area, al via il prossimo 17 luglio nella seconda serata di Nove: sei documentari scottanti, introdotti proprio da Trincia. E allora ‘scopriamo’ con lui questo e i suoi altri progetti televisivi.

trincia_lupi_prod.jpg

Procediamo con ordine e partiamo da Lupi. Hai contribuito in prima persona alla scelta dei sei documentari di questo primo ciclo?

Sì, assolutamente. Me ne avevano proposti alcuni e dopo averli visionati ho selezionato questi sei. Devo dire che alla fine la scelta ha coinciso con quella di Discovery e di Cristiana Mastropietro di Pesci Combattenti, che produce il programma. Eravamo tutti d’accordo su quelli che andranno in onda. È stata una scelta piuttosto naturale, a dire il vero, perché erano i lavori migliori.

Oltre a sceglierli, quale sarà il tuo ruolo nel programma?

L’idea è stata quella di creare una sorta di piccolo percorso guidato tra questi sei documentari, per cui farò un po’ da guida ai telespettatori, anche nella visione. Lancio il reportage, quindi lo commento prima e dopo i break pubblicitari. Il percorso orizzontale di cui parlavamo riguarda soprattutto le tre inchieste dedicate alla droga, con le quali di fatto seguiamo tutta la filiera, dalla produzione in Perù ai muli che distribuiscono. Praticamente raccontiamo dal produttore al consumatore.

Tu sei uno da prima linea. Come mai hai accettato questo ruolo da narratore ‘over’? Test in vista di altri progetti?

Guarda, in parte è un test. Nove vuole concentrarsi sempre di più verso una narrazione giornalistica. E infatti Cacciatori, programma sul quale sto lavorando e che andrà in onda in autunno, va proprio in quella direzione. Diciamo che Lupi è un modo di sperimentare contenuti non entertainment. Hanno chiesto a me di presentarli non solo per ‘conoscerci’, ma perché volevano qualcuno che avesse già trattato quegli argomenti e avesse già fatto reportage di quel tipo. L’obiettivo è anche quello di raccontare al pubblico il dietro le quinte dei documentari: quali sono le difficoltà quando li realizzi, come ti comporti quando ti ritrovi faccia a faccia con un sicario. In pratica avere qualcuno che non ti ‘presenta’ solo il documentario, ma ti spiega come funziona e illustra anche le difficoltà di inchieste di questo tipo.

Insomma, con te Nove ha cercato da una parte l’expertise sui contenuti – Trincia garanzia di qualità del prodotto – e dall’altra una guida alla lettura dalla prospettiva dell’addetto ai lavori. Beh, devo dire che il ruolo ti si attaglia perfettamente…

Cristiana Mastropietro, con cui ho sempre voluto collaborare perché mi piace moltissimo come lavora sui personaggi, ha avuto un’ottima idea. “Io da te voglio un racconto originale, il racconto di chi ha vissuto queste situazioni. Tu puoi raccontare come ci si sente, cosa si prova” mi ha detto. Questa è stata la chiave narrativa, un punto di vista davvero diverso dal solito. Cristiana è stata davvero in gamba.

lupi_pablotrincia.jpg

Dai Lupi, quindi, a Cacciatori…

Sì, si tratta di un ‘doppio numero zero’ che andrà in onda su Nove penso in Autunno, forse ottobre. È un po’ come un Chi l’ha visto? ‘on the road’. Come cacciatori, ci mettiamo alla ricerca di qualcuno insieme alla persona che lo sta cercando. È un programma unico nel suo genere. Penso davvero sia un ottimo lavoro perché sintetizza bene narrazione e giornalismo investigativo, con tutti gli ingredienti della ‘suspense’ propria della ricerca e la forza delle emozioni di chi spera di trovare la propria ‘preda’. La ricerca avviene per i motivi più disparati, non ‘mere’ questioni di cuore: c’è chi cerca una verità o chi cerca la propria famiglia biologica dopo 34 anni come nella storia che abbiamo appena realizzato in Etiopia. Il format l’ho proposto io a Magnolia ispirandomi al film Philomena.  Avevo già fatto una cosa del genere per Santoro con la storia di Ismail, cercato dalla madre in Siria. Ora l’idea è di serializzarlo. Vedremo. Se il pilot piacerà, continueremo.

Ma quest’autunno ti vedremo anche su Rai 2 con Mai più bullismo, presentato come un esperimento di social coaching tv… ovvero? Di cosa si tratta?

Il programma è molto bello perché è socialmente utile. L’idea è quella di dare ai ragazzi che subiscono a scuola gravi atti di bullismo la possibilità di filmare quel che accade con microfoni e microcamera nascosta. Non vedremo i volti dei bulli, perché l’obiettivo non è individuare i ‘colpevoli’: lo scopo invece è di convocare i bulli, i loro genitori, anche i compagni di scuola che magari non si sono mai accorti di nulla o che non sono mai intervenuti. Non si vuole puntare il dito contro nessuno, ma spiegare che le offese continue, l’isolamento, possono far male. Il taglio è propositivo, non inquirente.

Il format è originale?

Il format è spagnolo. L’ho visto e le puntate sono bellissime, anche perché il programma cerca di spiegare agli adulti a cosa far attenzione per individuare casi di bullismo e come parlare ai propri figli o ai propri studenti. Il messaggio è positivo e ho accettato proprio perché mi piaceva l’idea di creare un rapporto empatico e utile con i ragazzi, senza dividere nettamente il mondo in buoni e cattivi, vittime e carnefici, ma cercando di raccontare un fenomeno che si può combattere col dialogo, franco e onesto.

Ma non è che dopo il programma i ‘bulli’ si sono accaniti contro i protagonisti ancora di più? È capitato nella versione spagnola?

Guarda, posso dirti che la bellezza del format è proprio nei risultati della mediazione. Nella versione spagnola, infatti, si vedono i bulli che chiedono sinceramente scusa quando si rendono conto dei danni provocati. Nessuno li ha costretti a scusarsi, ma si capisce quanto sentano la responsabilità del proprio comportamento una volta capito cosa hanno creato, senza essere messi all’indice come ‘cattivi’. Trovo che il bello del programma sia proprio nella ricerca del contatto e del dialogo. Credimi, mi son ritrovato a piangere alla fine della puntata.

A proposito di Rai 2, tornerà anche Santoro nel prossimo autunno. Dopo l’esperienza ad AnnoZero/AnnoUno farai ancora parte della sua squadra?

No… con loro ho fatto un anno ed è stata un’esperienza straordinaria. Ho imparato tantissimo. Praticamente ho fatto un master. Venivo dallo stile narrativo de Le Iene e sono approdato in un programma esattamente opposto. I reportage di Santoro hanno un’impronta molto cinematografica, che a me piace tantissimo, e così mi sono ritrovato a imparare uno stile del tutto diverso. Dopo un anno, però, ho deciso di prendere la mia strada: ho tante idee da realizzare, tanti progetti da proporre e li voglio fare tutti (sorride).

Beh, a occhio direi che nello stile di Santoro si va per sottrazione, mentre Le Iene si caratterizzano anche per una certa ridondanza…

Guarda, non è tanto diverso il mio modo di raccontare le cose, perché son sempre io a raccontarle… Cambia, invece, il ‘metodo’ della narrazione: se ci pensi, Le Iene è un programma quasi ‘radiofonico’, nel senso che è tutto molto spiegato. “Scendo le scale, salgo in macchina, prendo la camera…” e via così. Puoi seguire il servizio quasi senza vederlo. Con Santoro monti per immagini, monti con la musica… e può contare su una squadra di videomaker e montatori fenomenali. Si passa dalla ‘radio’ al cinema, insomma.

pablo trincia

Come sei rimasto con Le Iene?

In ottimi rapporti. È la mia famiglia, ci sono cresciuto. Ma volevo sperimentare nuovi linguaggi.

Ma quest’etichetta di ‘Iena’, che in fondo resta sempre addosso, non è limitante?

No (la voce si intenerisce quasi). In realtà non sono mai stato così orgoglioso di aver fatto parte de Le Iene. Mi ha insegnato tutto, non solo dal punto di vista professionale, ma anche umano.

Iena una volta, Iena per sempre, insomma…

‘Per sempre’ nel senso che Le Iene mi ha dato dei fondamentali. Può piacere o non piacere, figurati, ma è il programma più difficile da fare.

Cosa ti ha insegnato Le Iene?

Davide Parenti mi ha insegnato una cosa essenziale: non si gira intorno alle cose, ci si va dentro. O ci arrivi o non hai il pezzo. A volte ti viene la tentazione di girarci intorno alle cose, magari per paura, magari perché è difficile o scomodo… Ma lo standard è così alto che anche se devi fare un servizio su una truffa, per quanto banale, devi aver tutto documentato. È un lavoro da investigatore, da poliziotto quasi. E poi mi ha insegnato a creare empatia con le persone, ad abbattere quella distanza che solitamente un giornalista ha con l’intervistato. Mi ha insegnato a far arrivare al telespettatore non solo il contenuto del servizio, che poi è quello arriva alla testa, ma anche le emozioni dei protagonisti. Ed è una cosa che ormai mi porto dietro in tutto quel che faccio, che si sente anche in Mai più bullismo o Cacciatori. Vuol dire raccontare un pezzo di vita, non solo ‘un fatto’.

Ok, insisto: penso a casi spinosi come Stamina e a tutte le polemiche che ne son scaturite. Una cornice del genere non ha rischiato di ‘compromettere’ il tuo lavoro?

No, non l’ha fatto. La gente riconosce il tuo lavoro: il vantaggio, e anche il rischio, di quel programma è che tu ci metti la faccia e ogni firma ha una forte connotazione. Metterci la faccia tutela e nello stesso tempo dà una grande responsabilità. Stamina è stato un momento un po’ particolare nella storia del programma, ma Le Iene è sempre stato amatissimo.

trincia_lupi.jpg

Hai dichiarato che il futuro del giornalismo è il documentario online. Perché? Non si rischia ancora di più la ‘ghettizzazione’ e un maggior gap con il pubblico meno ‘tecnologico’?

Beh, intanto perché il futuro è nelle mani di una generazione che vive con lo smartphone, che cerca contenuti e li condivide istantaneamente, che subirà sempre di meno le griglie del palinsesto. Io adesso sto lavorando con Fanpage per Toxicity, una serie sulle droghe. Ebbene, quando ho annunciato che avrei lavorato con loro, tutti a dirmi che ero matto. “Ma non vedi quello che pubblicano su FB?” mi dicevano. Rispondevo che prima di giudicare bisognava guardare e infatti la serie sta andando molto bene. Un documentario di 20′, che sul web son tanti, sui bambini africani ha fatto oltre 5 milioni di visualizzazioni nel mondo. Numeri pazzeschi per un doc che altrove, magari in tv, non ti avrebbero proprio fatto fare. Se facessi un reportage sapendo che va solo in tv non ne sarei così felice. L’idea di avere i contenuti online, invece, dà il senso della continua possibilità: possono essere visti e rivisti, diventare virali. Ed è davvero essenziale ormai.

Insomma, la piattaforma online come elemento imprescindibile della fruizione. Diciamo che ormai sempre di più anche in Italia i broadcaster sono su questa linea e si può dire che ormai per il pubblico più giovane il palinsesto è già ‘esploso…

Io penso che il web sia, e debba essere, il futuro e lo dico anche per noi giornalisti: la carta stampata sta morendo, la tv guarda sempre più all’entertainment, il web è uno sbocco importante per i contenuti e i lavori ben fatti.

A proposito di web, proprio su FB hai scritto che forse uno dei tuoi grandi rimpianti è stato quello di non aver tentato la carriera accademica al School of Oriental and African Studies – SOAS di Londra “dove ho vissuto alcuni degli anni più belli e importanti della mia vita, dove ho imparato ad amare e apprezzare lingue, religioni e culture lontane“. Ma in fondo anche il tuo giornalismo è ricerca, anche nel senso più accademico, no?

Siiiiii, maaaa (e qui lo sento quasi perdersi nei ricordi di quegli anni e nel pensiero di quel che sarebbe potuto essere)… io amo studiare, imparare le lingue. Quella è la mia grande, immensa passione. Il mio amore è quello. Guarda, ti dico… se io potessi svegliarmi tutte le mattine per studiare, che so, il mongolo o il sud coreano o anche l’araucano (lingua indigena del Cile, ndr) sarei felicissimo. Quella è la mia dimensione… per me le lingue sono tutto… mi piacerebbe insegnarle (e il tono si fa davvero sognante).

E dire che ne conosci già un bel po’, swahili incluso…

Beh sì, col mio lavoro giro tanto, le incrocio ma non le vivo come vorrei. Ultimamente sono andato in Kenya e ho rispolverato il mio swahili dopo 15 anni, però non hai tempo di approfondire, di migliorare. Se tornassi indietro forse proverei quel tipo di carriera. Ciò non toglie che quel che faccio mi piace, ne sono felicissimo. Mi è andata di gran culo, eh!

Ma come ‘di gran culo’?

Guarda, io 10 anni fa ero un freelance per la carta stampata, senza prospettive. Sì, pubblicavo, scrivevo un sacco anche per  Panorama, il Venerdì… ma non andavo da nessuna parte. Nel 2008 mi sono convinto a mollare questo lavoro. “Basta, non c’è futuro, lascio il giornalismo…” ripetevo e avevo deciso di iscrivermi a un corso di arabo in Yemen. Poi mia moglie mi ha suggerito di provare a Le Iene. Ci sono andato quasi sperando che mi dicessero di no, così avrei potuto mollare tutto e fare altro. E invece… E invece sono tornato a fare il freelance, proprio io che avevo detto che non l’avrei fatto mai più (ride). Ma in realtà son tanti che vorrebbero fare questo mestiere in questo modo, anche molto bravi. E io mi rendo conto ogni giorno dell’immenso privilegio che ho.

Scusa la domanda scema, ma che ci fai ancora in Italia? Col tuo background e la tua formazione diciamo che ci staresti bene nel mondo del giornalismo anglosassone…

Guarda, NON CI ANDRO’ MAI! NON LO FARO’ MAI! (ridacchia) Così magari succede… (ride). Scherzi a parte, io trovo che sia proprio l’Italia il posto giusto per me. Io ho imparato questo mestiere da autodidatta, leggendo tantissimo i giornali anglosassoni, per l’appunto, guardando i doc americani, seguendo le loro serie. Mi sono fatto, così, una cultura del racconto di marca anglosassone, quindi, che in Italia manca quasi completamente. In Italia spesso prevale la retorica, mentre ti sfido a cercare un pezzo di qualsiasi giornale anglosassone che non parta da una storia. Qui mi trovo a leggere reportage dal Sudan che si aprono con i tramonti poetici, non con un fatto, con un protagonista, con una storia da raccontare. Ci sono inchieste senza neanche un virgolettato, costruite senza parlare con nessuno… Ecco perché ti dico che noi abbiamo un gran vuoto da colmare.  All’inizio vedevo questa mia formazione ‘atipica’ come un difetto, una cosa che mi condannava ad essere un outsider. Ma poi l’ho fatta diventare un punto di forza: in Italia manca una cosa del genere? Bene, la faccio io. Sapevo che la gente l’avrebbe apprezzato, che l’avrebbe cercato e infatti funziona. Guarda Gomorra: è un prodotto che può non piacere, che può avere i suoi limiti ma la sua impronta è decisamente americana, lontana dai modelli della serialità italiana e guarda il successo che ha avuto.  Quindi l’Italia sì…

Hai detto che hai tante idee che ti frullano in testa e qualche sogno da realizzare… Che cosa hai nel tuo cassetto?

Alloraaaaa, il sogno nel cassettooo…  è una cosa che ancora non dico… però mi piacerebbe fare un programma sulle lingue.

Vabbè, ma tu mi inviti a nozze! 

Guarda, ho un’idea in testa … e so che lo farò. Perché sì, lo farò. Già ho realizzato tanti sogni, ma se riesco a fare questo è davvero il top del top! Anche perché l’Italia è indietro anche sulle lingue, come è noto, forse anche per colpa del doppiaggio, abitudine che ci tiene lontani dai prodotti in lingua originale. Ma è un argomento affascinante: parlare un’altra lingua ti fa entrare in un altro mondo e ti trasforma perché inevitabilmente cambi il tuo tono di voce, la prosodia, cambi il modo di gesticolare, le espressioni. Cambia tutto e ti sorprendi a scoprirti diverso. E alla gente questo interessa. Dai, a settembre mi ci metto…

pablo-trincia.jpg

Vabbè, ultima cosa: sei giovanissimo, ma la tua vita meriterebbe un film. Pure PIF ha portato al cinema la sua infanzia, diventata la chiave del racconto di una Palermo e di un’Italia alle prese con una Mafia che sembrava imbattibile. Hai mai pensato a un film sul ‘giovane Pablo’?

Ehhhhhh… a dirla tutta questo programma che ho in mente sulle lingue è esattamente questo. Poi io lo vedo come programma perché sono un televisionaro senza speranza (ride), ma è proprio quello che mi piacerebbe fare. Poi hai citato PIF, che per me è assolutamente un maestro. Lui è proprio la dimostrazione del fatto che se uno sa raccontare le cose basta una telecamerina. Il Testimone era un gioiellino. E quel programma è la dimostrazione che l’Italia ha fame di storie e di modi originali di narrazione.

 

Non posso che ringraziare Pablo Trincia per il suo entusiasmo, il suo lavoro e il suo sogno di un programma sulle lingue, che io già aspetto con ansia. Nel frattempo avremo modo di vederlo in Lupi, dal 17 luglio su Nove, quindi in autunno con Cacciatori, sempre su Nove, e con Mai più Bullismo, su Rai 2. E dopo questa lunga e piacevolissima intervista guarderò i suoi programmi con un occhio diverso, ancora più curioso.

Ad maiora!

Nove